domenica 21 febbraio 2010

Ottanta possibili capitoli, tre libri

Sono passati diciotto anni esatti tra l'uscita della prima puntata della rubrica e l'uscita della terza raccolta, Il Principe di Condé.
Mi interrogo ora sui criteri che hanno portato alla costruzione dei tre libri. Quando, nel 2000, ho scelto i capitoli di Romanzi per i manager ne avevo a disposizione cinquanta. Ho tenuto nel libro l'ultimo scritto -Émile Zola, Ascesa e trionfo del Grande Magazzino (da Il Paradiso delle Signore)-, ho escluso il primo, Balzac, che allora non mi pareva ben riuscito, ho costruito la selezione avendo in mente l'idea di un contro-manuale di management. Da questa idea discende la scansione in sezioni: una prima dedicata al lvoro, poi modelli organizzativi, marketing, cambiamento.
In questo libro, guidato, dai temi, ho parlato dei romanzi chee mi sembravano esemplari: i Buddenbrook, un titolo per tutti, ho mischiato classici con romanzi più recenti, Tolstoj con Saint-Exupery, London con Busi.
Lo schema complessivo, poi mantenuto nei successivi due libri, prevedeva ventidue romanzi.
Al momento di organizzare la seconda raccolta, Leggere per lavorare bene, nel 2006, avevo da poco sospeso l'appuntamento bimestrale. Sottratti agli ottanta romanzi trattati i ventidue di Romanzi per i manager, restava la scelta tra cinquantaquattro titoli.
Ho tenuto conto di alcune delle ultime rubriche scritte, D'Arzo, Gombrowicz, Testori, ma sopratutto ho guardato a ritroso, recuperando alcune delle prime puntate, Balzac e Borges. Nel costruire l'insieme ho seguito un criterio 'filosofico' e personale, non più una rilettura dei tradizionali temi del management, ma una più precisa fedeltà a un mio punto di vista.
Ho anche consapevolmente dato particolare spazio ai classici: Manzoni, Dostoevskij, Stendhal,Goethe appunto, Kafka L'uso di molti testi dell'Ottocento, ricordo anche Gaskell, Poe, Gogoľ, mi ha spinto a ragionamenti metaforici più che a una precisa lettura del presente. Mi sono anche preso la briga di inserire autori poco noti, ma a me cari, per diversi motivi: Felisberto Hernández, Virgilio Piñera, Gombrowicz, D'Arzo.
Ultima raccolta, Il Principe di Condé, costruita nell'autunno 2009, mi è apparsa in mente già quasi pronta. Sulla spinta dell'attualità, la scelta tra i trentasei possibili capitoli mi è subito apparsa chiara.
Un inizio legato al metodo, a un certo modo che mi è consono di avvicinarmi alla lettura delle organizzazioni - una ideale prosecuzione della voce di Simenon in Romanzi per i manager e di Poe in Leggere per lavorare bene. Qui gli occhiali di una ragazzina dei bassi di Napoli, e accanto l'acume di Perry Mason.
Ma poi lettura del presente: anche capitoli scritti vari anni prima mi parlavano, e spero parlino ai lettori, di cose attualissime: caos e incertezza, ecologia, collasso ambientale, pressione della finanza sulla produzione, corruzione, crisi del mercato del lavoro, lavoro nero, immigrazione.
E così come apre una riflessione sul metodo, chiude il saggio sguardo di Fontane e Flaubert rivolto a rileggere il tempo mal speso e le personali insufficienze.

Come è nata l'idea del 'Principe di Condé'

Da quando lavoro, mi sono trovato a riflettere sulla gran capacità dei narratori di parlare del lavoro. Come ricordo nell'Introduzione a Leggere per lavorare bene, Freud diceva che il lavoro e l'amore governano la vita. I narratori, i romanzieri e i poeti lo sanno bene. E di questo parla la loro opera. Ma poi, anche fuorviati da ideologie che ci spingono a considerare il lavoro furto, alienazione e pena, finiamo per leggere nei romanzi solo amore. E lasciamo che a scrivere di lavoro siano economisti e sociologi ed esperti di management.
Qui noto anche un risvolto paradossale: economisti e sociologi ed esperti di management tornano oggi a dar valore alla narrazione. Solo tramite la narrazione, solo se si sa raccontare si produce conoscenza utile e fruibile. Il problema è però che economisti e sociologi ed esperti di management pretendono, senza esserlo, di essere capaci di narrare, mentre negano ai lavoratori, ai practitioner qualsiasi capacità narrativa. In realtà, qualsiasi lavoratore, qualsiasi persona che pratica una professione, sa narrare molto meglio di economisti e sociologi ed esperti di management. Questi ultimi guardano dall'esterno, osservano con prospopoea, con atteggiamento giudicante. Mentre chi vive i lavoro parla di quello che sa, racconta con passione. Questo è il grande equivoco dello storytelling.
Dico quindi: torniamo a leggere i romanzi. Così agli inzi degli anni '90 proposi a Raoul C. D. Nacamulli, direttore di Sviluppo & Organizzazione, l'idea da cui sarebbe nata la mia rubrica.
Inizialmente, devo dire, la mia idea si traduceva nel proposito di proporre, puntata dopo puntata, un romanziere, ed il suo personale modo di parlare di impresa, lavoro, organizzazione, produzione.
Scrissi qualche testo di prova. Il testo che resta nel mio ricordo esemplare, riguarda un romanziere esemplare -nessuno come lui parla con feervido entusiasmo del 'fare impresa'-. Honoré de Balzac. Ho pubblicato quel testo su Bloom.
Raoul, però, dopo -credo- essersi consultato con qualche membro del Comitato Scientifico della rivista, mi propose un lavoro diverso, più vicino al testo. Di volta in volta un romanzo commentato. Sono arrivato così alla struttura cui sono rimasto poi fedele: una introduzione nella quale si presenta l'autore, una descrizione del contesto nel quale si inquadra l'opera, brani dell'opera selezionati e commentati, ed infine un preciso riferimento alle fonti bibliografiche.
Potete rendervi conto della struttura leggendo in questo blog una puntata della rubrica, non compresa in nessuna delle tre raccolte.
Mi sono dato inoltrre un vincolo, al quale sono rimasto fedele talvolta con dispiacere: solo un romanzo per autore. Vincolo stimolante, perché mi ha spinto ad ad allargare lo sguardo, non soffermandomi troppo i su autori per me specialmente importanti e capaci di parlare di impresa, lavoro, organizzazione. Vincolo limitante, perché mi ha costretto ad escludere romanzi che sembravano scritti apposta per il Principe di Condé. Penso per esempio a Una vita e Senilità di Svevo, penso all'opera intera di Zola.

Una rubrica inedita in libro: U.S.A., 1945, da 'Clarkton' di Howard Fast


Il Principe di Condé


U.S.A., 1945
di Francesco Varanini

Howard Fast
Nasce a New York nel 1914 in una famiglia operaia. Nel solco di una tradizione comune a molti scrittori americani, lascia presto la scuola e viaggia per gli States mantenendosi con i più diversi umili mestieri. Scrive il primo romanzo, Two Valleys, nel 1933. L’ultimo, Greenwich, è stato pubblicato da Harcourt nell’aprile 2000. Nell’arco di sessantasette anni Howard Fast, il cui vero nome è Walter Ericson, pubblica sessantacinque libri, usando anche diversi altri pseudonimi (E.V. Cunningham è il più noto) ed attraversando i più diversi generi: il giallo, il rosa, la fantascienza, l’inchiesta giornalistica, il racconto, la sceneggiatura cinematografica, il teatro, la poesia. Le sue opere più note restano probabilmente i romanzi storici legati alla storia americana (Citizen Tom Paine, 1943, divenuto presto un libro di testo nelle scuole) e Spartacus, 1951 - la rivolta degli schiavi contro Roma, 73-71 avanti Cristo, riletta come metafora dei tempi nostri.
Nel 1943 si iscrive al Partito Comunista Americano. Patisce i rigori del maccartismo (la ‘caccia alle streghe’ lanciata contro i militanti comunisti dal senatore conservatore Joseph R. McCarthy). Nel 1947 è arrestato "per disprezzo del Congresso": non aveva voluto rivelare di fronte alla Commissione d’inchiesta i nomi dei compagni di partito. Nel 1952 il New York Times pubblica i messaggi intimidatori di associazioni anticomuniste: i libri di Fast debbono essere esclusi dalle biblioteche pubbliche e scolastiche. Nel 1956 lascia il partito. Parla dei motivi l’anno dopo in The Naked God: The Writer and the Communist Party (1957), e di nuovo nella sua autobiografia, Being Red, 1990. Nel corso degli anni si avvicina al misticismo Zen, al pacifismo, ma l’atteggiamento di fondo, raro esempio di coerenza, non cambia: "I'm a lefty. I was born one, and I'll die one." Muore nel 2003.

Nel dicembre 1944 i tedeschi scatenarono un inatteso attacco nella foresta delle Ardenne. Si incuneano nel Belgio e nel Lussemburgo e stringono d’assedio Bastogne. Solo il 26 dicembre Bastogne viene liberata, e solo a metà del gennaio 1945 l’esercito alleato riprende le posizioni già conquistate. Il contrattacco sul fronte occidentale rimette in discussione la tabella di marcia del generale Eisenhower, e allo stesso tempo indebolisce le posizioni tedesche sul lato orientale. Ne risulta favorita l’avanzata sovietica. E’ così che quando in febbraio scatta l’offensiva finale angloamericana, anche i sovietici sono sul territorio tedesco. E intanto gli Stati Uniti sono ancora impegnati anche sul fronte del Pacifico.
Mentre si continua a combattere, si guarda al futuro. A Yalta, all’inizio del febbraio 1945 Stalin, Churchill e Roosevelt disegnano i nuovi scenari geopolitica: già si intravede un mondo diviso in blocchi, e quel nuovo quadro strategico che si imparerà poi a chiamare ‘guerra fredda’.
Ma Roosevelt, che è entrato alla casa Bianca nel 1932 e che con le elezioni del 7 novembre 1944 è giunto al quarto mandato presidenziale, non vedrà la fine della guerra. La sua salute è malferma. Nella primavera del 1945 va a Warm Spring, in Georgia, a prendersi un po’ di riposo in vista della conferenza per lo statuto delle Nazioni Unite a San Francisco. Il 12 aprile muore improvvisamente di emorragia cerebrale.
La Germania di Hitler crolla meno di un mese più tardi. Le grandi celebrazioni della vittoria, l’8 maggio 1945, sono ancora segnate dal lutto e dalla preoccupazione: la morte del presidente, la morte di milioni di uomini (saranno calcolate oltre quarantacinquemilioni di vittime, di cui oltre quattrocentomila statunitensi). E la recente scoperta , che è solo dell’aprile di quell’anno, di cosa è realmente accaduto nei campi di sterminio nazisti.
La responsabilità del potere, e la sostanziale guida del ‘nuovo ordine mondiale’, ricadono ora sulle spalle di un illustre sconosciuto, il vicepresidente Harry Truman (“Chi diavolo è Harry Truman?” aveva chiesto nell’estate del ’44 il capo del personale della Casa Bianca a Roosevelt).
Intanto gli avvenimenti si succedono incalzanti. Sul fronte del Pacifico gli Stati Uniti impiegano trecentomila uomini per conquistare, sotto il fuoco degli aerei kamikaze, l’isola di Okinawa, indispensabile piattaforma per l’attacco finale al Giappone.
Il 16 luglio 1945 nel deserto del New Mexico ha luogo la prima esplosione atomica. Il più grande progetto di Ricerca & Sviluppo mai concepito dall’uomo –iniziato quando nel 1936 Albert Einstein avvisa Roosevelt delle ricerche tedesche per un uso militare della fissione nucleare– ha raggiunto il suo risultato. Ma ora si deve affrontare il dilemma: se, e come, usare la nuova arma. Il 25 luglio Truman, che è a Potsdam, in Germania, per un nuovo incontro dei tre grandi, ordina di usare la bomba se i giapponesi non si arrenderanno entro il 3 agosto. Alle nove di mattina del 6 agosto il B-29 Enola Gay lancia su Hiroshima la prima bomba atomica. Il 9 agosto, seconda bomba su Nagasaki. Il 14 agosto l’imperatore parlando alla radio annuncia la resa. Il 2 settembre il generale MacArthur, sulla nave Missouri, con i rappresentanti degli alleati, accetta formalmente la resa.
Ma – possiamo chiederci – cosa accade intanto negli States. Tra il 1940 e il 1945 sotto la pressione delle esigenze militari, e in virtù dei finanziamenti governativi, il prodotto nazionale loro raddoppia. La disoccupazione seguita alla crisi del 1929 è definitivamente superata. ‘Economia di guerra’: mercato regolato da commesse statali, razionamento alimentare, prezzi,
stipendi e salari congelati, attento uso e riuso delle risorse. Ma anche significativo innalzamento del tenore di vita. Ora il sistema ha difficoltà a trovare mano d’opera per i cantieri, le fabbriche di aerei e di esplosivi, di cibo conservato. Entrano nel mercato del lavoro due milioni di negri (con conseguenti ondate migratorie dal Sud verso il Nord e il Far West) e sei milioni di donne (e si tratta non solo di ragazze, ma anche di donne mature e sposate). I sindacati vedono crescere il loro peso politico e sociale: gli iscritti passano da undici a quindici milioni.
L’impatto economico e sociale della fine della guerra preoccupa (Truman nelle sue memorie parlerà della “più grande smobilitazione della storia, o, se preferite, ‘disintegrazione’”). Di fatto, gli effettivi delle forze armate, quasi dodici milioni al culmine dello sforzo bellico, scenderanno a tre milioni nel 1947, e a seicentomila alla fine del 1949. Sono anche stati predisposti
ammortizzatori. Nel 1944 è stato promulgato il Servicemen’s Readjustement Act, meglio conosciuto come GI Bill of Rights (GI: Government Issue, il soldato semplice): ingenti stanziamenti a favore dei reduci: cure mediche, sussidi di disoccupazione, programmi educativi e di addestramento professionale, prestiti per l’edilizia privata e per l’avvio di attività imprenditoriali.
Siamo pronti ora per entrare nel romanzo, tutto concentrato in quattro giornate, da giovedì 6 a domenica 9 dicembre 1945 – giusto quattro anni dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour.

Consulenza strategica: stile
Leopold e James erano consulenti industriali, con uffici al trentaduesimo piano dell’Empire State. Quando Lowell, alle tre meno un quarto (…), era entrato nella loro sala d’aspetto, si sentiva piuttosto depresso, e a tale stato d’animo non giovava certo il fatto che quegli uffici erano decorati in uno stile ch’egli aborriva: una specie di modernismo da era delle macchine, fatto di lastre di vetro, di metallo cromato logoro dall’uso, di bassorilievi d’ottone di cattivo gusto e seggiole laminate. Il tappeto azzurro pallido sul pavimento era spesso almeno un pollice e su di un enorme tavolo di vetro erano sparpagliate delle copie di “Fortune”, dell’”United States News” e del “Wall Street Journal”(…)
Accese una sigaretta e quando ne ebbe fumata la metà una rigida donna di mezza età con scarpe col tacco basso lo introdusse nell’ufficio di James. Lì dentro l’azzurro pallido costituiva la nota dominante: azzurri i tendaggi, azzurra la carta da parati raffigurante un panorama fotografico del Parco di Yellowstone o di qualche altro paesaggio delle Montagne Rocciose con le sue bianche vette, le pinete, e i laghi scintillanti. James era seduto a una scrivania grigia di fronte a un’enorme finestra, e la luce del sole invernale lo inquadrava in un paesaggio infinitamente e meravigliosamente distante, tutto cielo e nubi. Era piccolissimo e tarchiato, con movenze da uccello. Fece il giro della scrivania saltellando, strinse la mano a Lowell, lo ficcò in una sedia e poi, in totale contrasto con la prima impressione suscitata nel suo visitatore, abbordò senz’altro, quasi con asprezza, l’affare che li aveva riuniti lì. Mentre parlava rivelava un vago accento straniero, quasi impercettibile, che a Lowell riusciva difficile individuare in rapporto a un paese o a una regione determinata. (p. 13-14)

Imprenditore controvoglia, ovvero Passaggio generazionale
“Dunque lei ha lo stabilimento da cinque anni?” (chiede James a Lowell, ndr)
“All’incirca” rispose Lowell. “Mio padre è morto nel 1940. Era un uomo all’antica; gli piaceva fare da sé. Non era facile per me capirlo, ma non credo che avrebbe chiesto i suoi servigi.”
“Non andavate d’accordo?”
“Andavamo d’accordo” rispose Lowell in tono secco. “Soltanto che non mi piacevano gli affari, e non mi piacciono neanche tanto adesso. Non era necessari oche mi piacessero. Avevo una discreta situazione finanziaria ed ero indipendente, come pure mia moglie.”
“Ma ora si sente obbligato, sinceramente obbligato, alla memoria di suo padre, non è così?” (p. 15)
George Clark Lowell è un imprenditore della seconda generazione. Non avrebbe voluto ereditare l’impresa paterna. Ma un misto di pigro fatalismo e di orgoglio l’hanno spinto a farsene carico. E pensare che fino a poco tempo prima per lui “la parola operaio” aveva per lui “un senso puramente astratto”. “Come la maggior parte delle persone della sua classe, i suoi rapporti con la gente del popolo si erano limitati ai contatti con vetturini, barbieri, impiegati d’albergo, personale di servizio sui transatlantici, e a relazioni intermittenti con tutte quelle persone il cui compito nella vita consisteva nel soddisfare questa o quella particolare esigenza delle classi superiori”.
Ma oramai è impossibile sfuggire alla responsabilità: a Clarkton, il piccolo centro del Berkshires (New England, Massachusetts) la cui economia dipende totalmente dallo stabilimento Lowell, lo sciopero è in corso. Per affrontarlo è necessario il contributo di consulenti.

Dirigenti per professione
Aveva preso posto al suo scrittoio da pochi minuti, fissando pigramente e senza molto interesse il mucchio della corrispondenza, quando entrò Wilson, offrendo la sua mano tesa e stringendo con vigore quella del principale con un largo sorriso stereotipato che gli tagliava la faccia in due. “Mi fa piacere vederla tornare in prima linea, George.” Wilson era l’uomo delle frasi fatte. Quando Lowell l’aveva visto per la prima volta, cinque anni addietro, il saluto era stato: “Benvenuti in prima linea, George”, e da allora era sempre lo stesso ritornello, salvo leggere varianti. A ogni modo, Wilson se la cavava bene. Era un omone, non troppo alto ma grosso e carnoso, di spalle larghe; era più vicino ai cinquanta che ai quaranta e aveva una discreta pancia. Il collo adiposo formava tre menti sopra il colletto; aveva la voce tonante e un po’ roca e un forte attaccamento alla compagnia Lowell. La sicurezza che aveva di sé, del suo modo di vivere, della sua posizione nella vita, era tale che Lowell lo disprezzava e lo invidiava nello stesso tempo. Lowell non aveva per lui alcuna simpatia; Wilson lo sapeva e considerava quel fatto come una sfida. Rispettava quell’antipatia in quanto veniva da un uomo come Lowell, un tipo ch’egli ammirava moltissimo, al punto d’essere quasi fiero di quell’avversione e fermamente deciso ad eliminarla. (pp. 63-64)
Il potere non è nelle mani di Lowell, il ‘capitalista’, è di fatto nelle mani del suo manager. Pochi anni prima l’ex trotzkista James Burnham –in un libro presto famoso, The Managerial Revolution, 1941– rilevava pienamente questo cambiamento: è in atto uno “spostamento del centro della sovranità”: il governo di organizzazioni sempre più complesse impone l’avvento di specialisti, di tecnici della gestione.
Il libro è tempestivamente tradotto in italiano, nel 1946. Ma il titolo è fuorviante: La rivoluzione dei tecnici. Il management non e ancora entrato a far parte del nostro linguaggio e della nostra cultura. Il traduttore si giustifica, arrampicandosi un po’ sui vetri. “La parola ‘managers’ ha un significato più vasto di ‘dirigente’, che può essere interpretato, più che tradotto, in tecnico-dirigente.”

Pianificazione
Dopo una sola pausa impiegata a spuntare coi denti un sigaro e ad accenderlo, (Wilson, ndr) continuò, mettendo quei fatti in relazione con la situazione generale della nazione, con la grande ondata di scioperi, le possibilità di una guerra con la Russia e con l’eccessiva imposta sui profitti, in virtù del cui dispositivo, se i profitti della società fossero scesi sotto il livello del 1939, la differenza sarebbe stata coperta dal governo.
“Il che ci mette in una posizione solida dal punto di vista economico” disse Wilson. “Se facciamo un conto spicciolo di dollari e centesimo, ci converrebbe quasi tener chiusa la fabbrica. Ma ciò equivarrebbe a non vedere più lontano del proprio naso. A me non piace né la mancanza di previdenza né la pianificazione. Che gliene pare?”
“Sono d’accordo con lei” disse Lowell. “Non ho intenzione di chiudere la fabbrica.” Era arrivato lì per lì alla decisione che, una volta riaperte le officine, una volta cessato lo sciopero, , avrebbe messo tutto quanto in mano a Wilson… e se ne sarebbe andato per tutta la durata dell’inverno e forse anche per un periodo più lungo. (p. 64)
Così come ‘management’, ‘pianificazione’è in quegli anni è un concetto ancora difficile da maneggiare. Il significato sociologico ed economico risale agli anni venti. In Unione Sovietica nel 1921 viene istituita la Gosplan, Gosududarstvennaja Planovaja Komissija (Commissione Statale per la Pianificazione), e nel 1929 viene varato il primo Piano Quinquennale. Sono gli anni della Grande Crisi anche in Occidente, gli anni in cui negli Stati Uniti Roosevelt cerca via d’uscita in un New Deal, ‘nuovo accordo’ tra le ‘parti sociali’: accordo che –anche qui– dovrà tradursi in un piano fondato sulla convinzione (o speranza) di poter indirizzare l’economia tramite interventi del governo. L’Economist, il 30 marzo 1935, scrive infatti: se l’impresa privata ha manifestamente fallito nel prendere le giuste misure, ‘planning’ must be tried, deve essere tentata la ‘pianificazione’: espressione nuova, non a caso posta dal giornalista tra virgolette.

Relazioni Industriali
(Wilson parla a Lowell, ndr) “Suo padre non ebbe alcun fastidio con questa gente fino al 1932. Bisogna anche dire che aveva saputo dar loro l’impressione di essere un’unica grande famiglia, e questo senza bisogno di mostrarsi debole, lei mi capisce; aveva un pugno di ferro sotto un guanto di velluto. Li ammise alla partecipazione degli utili e altre cose del genere, e non ci fu mai niente da ridire. Ebbene, le noie cominciarono nel 1930, quando entrarono in scena i sindacati, e le cose no rientrarono nella normalità se non dopo lo scoppio della guerra. Gli operai che abbiamo qui sono ben pagati e conoscono il loro mestiere, e a me piace dirigere una fabbrica senza seccature. Ma se questo sciopero si prolunga troppo, questa gente diverrà cattiva. Lei sarebbe sorpreso di constatare come anche le migliori persone possono diventar cattive, George. Ma questo non è tutto; bisogna considerare il mercato. Io voglio sistemare questa faccenda per potermi occupare del mercato.” (p. 65)
L’atteggiamento ‘fordista’, il pugno di ferro in un guanto di velluto, la relazione personale, non mediata, con ogni singolo lavoratore, è possibile solo per l’imprenditore di prima generazione, paternalista, carismatico. Quindici anni dopo, in un sociale e politico oltretutto molto diverso, né Lowell né Wilson dispongono delle competenze necessarie. Di qui il ricorso alla consulenza – che però, vedremo, non offre alcuno sbocco strategico. E anzi offre solo soluzioni tattiche, poco efficaci e gravide di conseguenze. Le politiche ‘union’ –Relazioni Industriali gestite in accordo con il sindacato– sono ancora di là da venire.

Strike-breaker
Mentre entravano nel piccolo ascensore, Gelb disse al suo aiutante: “Ricorda una cosa, Frank. Andar giù ad arrestare i due rossi non significherebbe proprio niente. Faremmo il loro giuoco e non caveremmo un ragno dal buco. E sarebbe peggio ancora se dovessimo far uso dei nostri uomini per sfondare la linea di picchetto. La cosa non è ancora matura psicologicamente per gli arresti in massa”.
Norman scosse il capo: “Credevo che i mandati di cattura servissero a questo…” L’ascensore si fermò ed essi uscirono.
“Sì e no. (…) L’importante è rompere la linea di fronte all’ingresso. Non con la forza, il che sarebbe abbastanza facile, ma mettendoli in una situazione nella quale la continuazione stessa del picchetto li metterebbe in condizioni di illegalità. Una intimazione sarebbe uno dei modi per raggiungere lo scopo, ma né qui, né in qualunque altro posto degli Stati Uniti la situazione è favorevole ad azioni di questo genere. Ricorda Frank: la cosa più difficile del mondo per un essere umano è prendere una decisione… specialmente se si tratta di decisioni che non si prendono da molto tempo. (…) Mettili nella necessità di dover prendere una decisione. E’ nella natura umana essere esitanti. Ti sorprenderebbe se tu non potessi soltanto immaginare quanta parte della nostra società è fondata sul fatto che la media degli uomini è incapace di qualunque genere di decisioni.” (p. 132)
Chi è Ham Gelb? Inviato dalla società di consulenza Leopold & James, è portatore di una specifica competenza, che è un sostituto delle mancanti Relazioni Industriali. Spezzare lo sciopero, farlo fallire.

Lotta di classe come festa
La cucina era stipata al massimo delle sue capacità. Quelli che avevano già consumato lasciavano il posto agli altri. A un certo momento mancò il pane che fu sostituito da fette di torta con le nocciole; poi anche queste si esaurirono e si dovette dar fondo ad una cassa di pan biscotto ch’era stata regalata da un droghiere di Taunton. (…) “E’ il nervosismo che gli mette appetito” disse Joe. “Dovevi aspettartelo.”
“Dovevo aspettarmi che sbafassero le razioni di tutta una settimana unicamente per via del picchetto di massa?” (p. 206)
Non si vedeva in giro un solo poliziotto, ma soltanto un’automobile con la radio che Jack Curzon aveva mandato a pattugliare le vie. Centinaia di bambini erano accorsi a godersi lo spettacolo e sembrava che per loro fosse una gran festa. Un folto gruppo di giovani operai reduci di guerra era uscito in uniforme con la propria bandiera e uno striscione sul quale si leggeva: “Okay… anche se ci costerà più di Anzio, di Tarawa e della Normandia!”.
Alle nove meno un quarto Danny Ryan, al volante della Ford 1931 di Renoir, si fermò davanti alla cucina di Saropoles, si fece strada nella calca e disse al greco: “Tutto è pronto per cominciare la marcia. Abbiamo più di mille uomini all’angolo della Quarta strada con via delle Querce. Perché non mandi lì anche la tua banda? Possiamo partire tutti da quel punto, e a Curzon sarà meno facile sfondare la formazione”. (p. 207)

Lotta di classe come dramma
(Mike Sawyer, ndr) era venuto a Clarkton per starci poche ore. Era un organizzatore novizio del partito comunista degli Stati Uniti assegnato a quel distretto. Si sentiva incerto delle sue capacità e anche un po’ intontito dalla funzione. Aveva finito per restare lì tre giorni lasciando che in altre località del distretto si accumulasse più lavoro di quanto egli fosse in grado di sbrigare: quattro scioperi, riunioni, situazioni di ogni genere, rifornimenti di viveri con dei fondi esausti, questa o quella crisi che esigevano la sua opera di orientamento… insomma, un programma combinato in fretta e furia e senza ordine che si pretendeva che egli dipanasse, che sistemasse ragionevolmente vivendo con trentacinque dollari la settimana più cinque dollari per le spese. Ci si aspettava da lui tutto questo, e nello stesso tempo che fosse quello che la stampa nazionale descriveva così meticolosamente e con tanta sicurezza come la mente direttiva di un’organizzazione compatta e tremendamente disciplinata, strumento di Mosca, creato per sovvertire le istituzione nelle quali credono gli uomini liberi. (…)
Lui, un individuo, doveva personificare quell’organizzazione, conoscere i suoi problemi e anche i problemi del mondo, e risolverli. Ma non ave risolto nulla, e ora lo criticavano. (…)
Si pretendeva che lui si fosse dimostrato un capo; ma egli non aveva mai fatto il capo; non aveva mia preso decisioni di una certa importanza. Da poche settimane era stato congedato dall’esercito, dove tutti prendevano delle decisioni, meno lui, e adesso si trovava sul collo uno sciopero di cinquemila operai, la morte di due persone, un massacro come non ce n’erano più stati dal 1930, e la prospettiva molto probabile di uno sciopero lungo, penoso, estenuante, uno sciopero nato dalla violenza e che sarebbe continuato nella violenza. (pp. 228-229)
Nonostante il vasto successo di pubblico è considerato uno scrittore di serie B, e Clarkton non è annoverata tra le sue opere più riuscite. Ma Fast ha molto da insegnare: pochi sanno come lui descrivere i conflitti sociali in termini semplici, attraverso l’opposizione tra caratteri e ruoli, attraverso il piano racconto di storie di vita.
Mentre Mike Sawyer, rappresentante di una nuova possibile classe dirigente, si confronta con i suoi limiti soggettivi, e con l’oggettiva la difficoltà di organizzare il cambiamento, George Lowell si guarda intorno spaurito, cercando di cogliere intorno a sé segni di continuità. Cerca di convincersi che nulla è cambiato. La morte del figlio sul fronte europeo, i campi di sterminio nazisti, la bomba atomica, la guerra fredda e l’inatteso sciopero – tutto è cambiato, ma forse davvero niente cambia per chi non vuole vedere il mutamento, perché non sa accettarlo.
Lowell, in treno, va nella vettura-salone, trova una sedia libera e ordina un whisky con soda, e si compiace dicendosi che almeno quelle vetture ed i viaggiatori che le frequentano continuano ad essere uguali a se stesso.
Tutto, in apparenza, è come prima. “Si vedevano sempre le stesse facce. Si sforzò di confermare il suo giudizio osservando i volti vacui di quei viaggiatori di mezza età, piccoli funzionari, avvocati e rappresentanti di commercio, vestiti più o meno alla stessa maniera, donne mal dipinte o non dipinte. Si sentì confortato da quell’esame e quando gli fu servito il whisky riuscì persino ad aprire una copia di “Life”, a guardarne le fotografie e a centellinare la sua bevanda, esattamente come avrebbe potuto fare qualunque altro dei suoi compagni di viaggio”.

Riferimenti bibliografici
Clarkton, 1947, è uscito in Italia da Mondadori nel 1967, con il titolo Sciopero a Clarkton. Ma i diritti erano stati acquistati nel 1950 dall’Einaudi. La traduzione, di allora, è di Franco Ferrarotti. La Mondadori pubblica su licenza.

Sommario di 'Leggere per lavorare bene', Marsilio, 2007

DILETTO, CREATIVITÀ E GIUSTIZIA SOCIALE
Il lavoro come diletto, o La ricerca dell’armonia
Johann Wolfgang Goethe, Le affinità elettive
La sagacia del poeta
Edgar Allan Poe, La lettera rubata
Le ragioni del buon cuore
Elizabeth Gaskell, North and South
L’etica personale e l’etica del ruolo
Silvio D’Arzo, Casa d'altri
L’ozio delle macchine
Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares, Gli oziosi

IL POTERE E IL CONFLITTO
Il miracolo dell'autorità e l'autorità del miracolo
Fëdor Dostoevskij, La leggenda del Grande Inquisitore
Gli atteggiamenti difensivi
Alessandro Manzoni, I promessi sposi
Lo sport come moderna festa crudele
Giovanni Testori, Il dio di Roserio
Il tempo non è denaro
Virgilio Piñera, Il filantropo

IMPRENDITORI DI SÉ STESSI
Nascita di una economia moderna
Honoré de Balzac, Le illusioni perdute
L’accattonaggio come professione
Benito Pérez Galdós, Misericordia
La professionalità come piacere e come gioco
Luigi Pirandello, La giara
Miseri fattorini, ovvero organizzazione di un Inferno
Henry Miller, Tropico del Capricorno

IL LAVORO SU DI SÉ, O LA COSTRUZIONE DELL’IDENTITÀ
Il noviziato di Pinocchio
Carlo Collodi, Pinocchio
Critica della forma
Witold Gombrowicz, Ferdydurke
La formazione essenziale e la macchina analogica
René Daumal, Monte Analogo
Le lacrime come vantaggio competitivo
Felisberto Hernández, Coccodrillo

IL LAVORO COME APPROSSIMAZIONE ALLA FELICITÀ
L’illusorio calore dello status symbol
Nicolaj Vasiľevič Gogoľ, Il cappotto
La febbre telegrafica e l’emancipazione della donna
Matilde Serao, Telegrafi di Stato (Sezione femminile)
Onestà e decoro
Aleksandr Isaevic Solženicyn, Una giornata di Ivàn Denìsovič
Napoleone come desiderio, ovvero l'attimo fuggente
Stendhal, La Certosa di Parma
Trovare l’America, o il posto di lavoro come sogno
Franz Kafka, America

Sommario di 'Romanzi per i manager', Marsilio, 2000

IL LAVORO COME COMPETENZA E COME MERCATO
Passeggiando nel mercato del lavoro
Robert Walser, I fratelli Tanner
Le capacità come fardello
Milan Kundera, L'insostenibile leggerezza dell'essere
Le relazioni ambigue
Herman Melville, Bartleby, lo scrivano
Segretarie,
P.D. James, Morte sul fiume

MODELLI ORGANIZZATIVI
Le ragioni del cottimo
David H. Lawrence, Figli e amanti
Taylorismo in lavanderia
Jack London, Martin Eden
L'organizzazione dei sotterranei, ovvero l'organizzazione sotterranea
Georges Simenon, Maigret e il sergente maggiore
Formazione estrema
Robert A. Heinlein, Fanteria nello spazio

LE LEVE DEL MARKETING
Ascesa e trionfo del grande magazzino
Émile Zola, Il Paradiso delle signore
Il marketing, ovvero l'acqua a valore aggiunto
Achille Campanile, Un'impresa colossale
Lo stallo competitivo
Shalom Aleichem, A Kasrilevke è arrivato il progresso
Il gran teatro del servizio
Bohumil Hrabal, Ho servito il re d'Inghilterra

CRISI E CAMBIAMENTO
Il passaggio della crisi
Joseph Conrad, Il tifone
Il miraggio dell'oro e i modelli di sviluppo
Blaise Cendrars, L'oro
La forza del regolamento
Antoine de Saint-Exupéry, Volo di notte
I limiti della velocità
Julio Cortázar, Autostrada del Sud
La Rete, ovvero la nuova minaccia
William Gibson, La notte che bruciammo Chrome

STILI DI DIREZIONE
La maschera del ruolo
Thomas Mann, I Buddenbrook. Decadenza di una famiglia
Senza ruolo e senza maschera
Italo Svevo, La coscienza di Zeno
La criptofabbrica
Aldo Busi, Vita standard di un venditore provvisorio di collant
La carriera contro la morte
Guy de Maupassant, Bel-Ami
La leadership debole
Lev N. Tolstoj, Guerra e pace

Sommario del 'Principe di Condé', Libri Este, 2010

QUESTIONI DI METODO
Gli occhiali, ovvero strumenti per vedere il mondo
Anna Maria Ortese, Un paio di occhiali
Cercare soluzioni
Earl Stanley Gardner, Perry Mason e il canarino zoppo

UN MONDO A MISURA D’UOMO
L’inevitabilità della catastrofe e l’ossessione del controllo
Don DeLillo, Rumore bianco
L’orlo del caos
John Wyndham, Il giorno dei trifidi
Etnografia dei sistemi informativi
Ursula K. La Guin, Sempre la valle

LA SOCIETÀ DELLO SPETTACOLO
Il marziano e il controllo dell’incertezza
Ennio Flaiano, Un marziano a Roma
Pubblicità, o la nuova lotta di classe
Viktor Olegovich Pelevin, Babylon
Il potere dello spettacolo
Norman Spinrad, Jack Barron Show

L’ARTE DEL COMANDO, O IL POTERE COME ILLUSIONE
Gattopardismo
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo
Anatomia del successo
Graham Greene, I naufraghi
La rivoluzione dei manager e i paradossi della tecnologia
Kurt Jr. Vonnegut, Piano meccanico

QUESTIONI ETICHE
Verso una ecologia del potere
Goffredo Parise, Il padrone
Opera di persuasione
Patricia Highsmith, Il sepolto vivo
Sentimenti e risentimenti di un impiegato
Emilio De Marchi, Demetrio Pianelli

QUANDO IL LAVORO VIENE MENO
Per chi lavora l’organizzazione
George Saunders, Pastoralia
Borderline
Jean-Claude Izzo, Il sole dei morenti
Il lavoro come miraggio
Chimo, Lila dice

COMPETENZE, CAPACITÀ, ATTEGGIAMENTI
La professionalità come segreta simpatia e come lettura del mondo
Michel Tournier, Il Re degli ontani
Gesti minimi
Raymond Carver, Cose piccole ma buone

SAGGEZZA E CAMBIAMENTO
Quel che resta del tempo di lavoro
Kazuo Ishiguro, Quello che resta del giorno
Sentirsi nel mondo. Ovvero Saggezza e cambiamento
Theodor Fontane, Il signore di Stechlin
Il diritto all’autobiografia
Gustave Flaubert, L’educazione sentimentale

sabato 20 febbraio 2010

Introduzione a 'Il Principe di Condé', Libri Este, 2010

“Si racconta che il principe di Condé , dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi: ma, in primo luogo, era molto affaticato; secondariamente aveva già date tutte le disposizioni necessarie, e stabilito ciò che dovesse fare, la mattina”.
Così inizia il secondo capitolo dei Promessi sposi. Il giorno dopo, 19 maggio 1643, il giovane duca di Enghien, futuro principe di Condé, vince la battaglia, fermando l'avanzata degli Asburgo. All'opposto, nota Manzoni, l'atteggiamento di Don Abbondio.
“Don Abbondio in vece non sapeva altro ancora se non che l'indomani sarebbe giorno di battaglia; quindi una gran parte della notte fu spesa in consulte angosciose. (…) A ogni partito che rifiutava, il pover'uomo si rivoltava nel letto. (…) Il primo svegliarsi, dopo una sciagura, e in un impiccio, è un momento molto amaro. La mente, appena risentita, ricorre alle idee abituali della vita tranquilla antecedente; ma il pensiero del nuovo stato di cose le si affaccia subito sgarbatamente; e il dispiacere ne è più vivo in quel paragone istantaneo”.
Don Abbondio vive nel passato, resta afferrato a giorni che non potranno tornare. Vittima dell'insicurezza, si accosta al sonno angosciato. L'angoscia porta a vedere come inadeguate le soluzioni che la mente disperatamente esamina. Il sonno, così, non può ristorare. Al risveglio, il malcontento impedirà a don Abbondio di affrontare la situazione mettendo in campo le risorse che pure sono alla sua portata.
Certo l'atteggiamento del principe di Condé ci appare più costruttivo. Ma possiamo anche pensare che lo stesso Manzoni non abbia colto appieno la novità insita nell'atteggiamento del principe. E che lo stesso principe avrebbe potuto fare di meglio.
Mi piace pensare che il principe di Condé abbia dormito profondamente non solo perché era stanco, non solo perché, avendo dato “tutte le disposizioni necessarie”, si sentiva tranquillo. Voglio immaginare che avendo ormai fatto tutto quanto era ragionevole fare, ed approssimandosi la notte, si sia messo a leggere romanzo. Del resto, ricordo quella vivida pagina di Guerra e pace: Tolstoj ci mostra il generale Kutuzov che, sul campo di battaglia, terminata la conversazione con il principe Andrea “trasse un acquietante sospiro e riprese la lettura del romanzo che non aveva finito”.
Credo che di fronte alle difficoltà sia sia utile, anzi necessario, prendere le distanze dall'istante, liberare la mente, lasciarla vagare. Solo galleggiando nell'apparente, momentaneo vuoto si trovano le soluzioni creative, le soluzioni veramente vantaggiose.
Così, mi dico, e vi dico: quando le scadenze incombono, quando l'incertezza della situazione ci impedisce di prevedere cosa accadrà il giorno dopo, non serve pre-occuparsi: 'occupare prima', occupare da subito la nostra mente con una immagine di quei problemi, una immagine che, dopotutto, in nessun caso è in grado di rappresentare la realtà che avremo sotto gli occhi domani. Non serve pre-pararsi oltre misura, impossibile e inutile approntare soluzioni veramente adeguate prima di vivere i momento.
Dunque, cosa fare la sera prima: lasciare che la mente vaghi altrove, leggendo un romanzo. La mente semidesta si muoverà nella trama, seguendo lo sviluppo dell'intreccio – ma allo stesso tempo liberamente vagherà. Lo svolgimento della narrazione, svolgimento che i romanzieri mirabilmente sanno mostrarci, così, viene ad essere benaugurate narrazione di come sapremo muoverci nelle nostre quotidiane battaglie.
Avevo in mente tutto questo quando proposi la Raoul C. D. Nacamulli, allora direttore di Sviluppo & Organizzazione.
Nel compilare questa terza raccolta -che esce in coincidenza con il quarantennale della rivista, e con l'assunzione di rsponsabilità da parte del nuovo direttore, Gianfranco Rebora-, mi rivolgo a tutti coloro che non vogliono rinunciare a cogliere un senso nel loro lavoro.
Donne e uomini, segretarie e amministratori delegati, operai e dirigenti, tutti in fondo, allo stesso modo, con lo stesso impegno e con la stessa dedizione lavoriamo, tutti contribuiamo a creare ricchezza sociale, tutti siamo gravati da fatiche e angosce.
Ma in modo speciale mi rivolgo a coloro che hanno già letto queste pagine su Sviluppo & Organizzazione. Diciotto anni sono una vita di lavoro. Ricordare così il tempo trascorso, riandando non solo alle cose fatte, ma anche alle cose lette nel frattempo, è confortante. Gli affanni e le inevitabili delusioni quotidiane sono stati mitigati da queste letture. Tornare a leggere è riannodare un'amicizia; è cogliere di nuovo il filo di una fraterna consuetudine, che illumina la vita.
Mi riallaccio così alla conclusione del libro che avete in mano.
Per via del trascorrere degli anni e dei ritmi eccessivi di vite indaffarate si erano persi di vista. Nelle pagine finali dell'Educazione sentimentale di Flaubert, Frédéric e Deslaurieres, un tempo amici, dopo lunghi anni si ritrovano. Ora, sbolliti per effetto dell'età i furori giovanili, si concedono il tempo di una tranquilla conversazione.
Guardando agli anni passati, Frédéric riconosce di aver sbagliato per “mancanza di una linea dritta”: ha troppo divagato, si è occupato di troppe cose. Deslaurieres al contrario imputa a se stesso un “eccesso di linearità”: non aver tenuto conto “delle mille cose secondarie” trascurando le quali si perde di vista l'essenza del “tutto”.
Frédéric e Deslaurieres ripensano ora ai vincoli esterni che li hanno condizionati: l'ansia del successo, il desiderio di fare carriera, l'ambizione che si misura con simboli socialmente riconosciuti: denaro, posizione, beni e oggetti. Il pensiero di questo passato affannarsi, ora, a distanza di tempo, può essere vissuto con distacco e autoironia. Non importa, in fondo, non serve, restare mentalmente legati al ricordo di quel vincolo esterno, di quella protervia dei capi o insensatezza dell'organizzazione che ci ha impedito di fare ciò che avremmo potuto e voluto. E tantomeno importa soffermarci autocriticamente col senno di poi sui perché: perché abbiamo sbagliato, quale specifico errore abbiamo commesso, quale aspetto del nostro carattere ci ha frenato.
Col senno di poi, si può riconoscere di aver sbagliato per eccesso di logica, o di sentimento. La saggezza, dono dell'età, del tempo che passa, ci aiuta ad essere via via più lucidi nel capire come abbiamo vissuto, quali sono state le svolte della nostra vita.
Quello che importa, e che appare chiaro ai due amici che ora tranquillamente conversano, è il rimpianto per il tempo che che non ci siamo concessi. Tempo per ragionare senza vincoli, tempo per sperare, per progettare. Tempo dedicato all'ozio, agli scherzi e ai sorrisi, tempo non condizionato da scadenze, obblighi, obiettivi. Tempo per 'lavorare bene'.
Solo se non ci lasciamo condizionare da aspetti limitanti del compito; e solo se non prendiamo troppo sul serio le regole spesso eccessive che noi stessi ci imponiamo, e che l'organizzazione sempre e comunque tenta di imporci; solo se riusciamo ad essere semplici e attenti al presente, intimamente tranquilli, solo se questo è il nostro atteggiamento riusciremo a cogliere l'attimo propizio, il momento più adatto per fare ogni cosa.
Estasi, stato di grazia, beatitudine: istante vissuto pienamente, senza limitazioni legate al prima e dal dopo. Credo che ognuno di noi, lavorando, ha vissuto momenti così. Momenti in cui si sta bene perché si è in sintonia con il mondo e si è in sintonia con il mondo perché si sta sta bene. Efficacia e piacere si motivano e si rinforzano a vicenda. Sono creativo perché sto bene, e sto bene perché sono creativo. E' a questi momenti che si dovrebbe tornare col ricordo. Sono questi i momenti dai quali imparare. Sono questi i momenti in cui siamo produttivi, per noi stessi, per gli altri, per l'azienda che ci impiega.
Credo che si possa essere d'accordo su una cosa: nonostante il pesante clima che inquina l'ambiente di lavoro, nonostante indebite appropriazioni dei frutti del nostro affannarci, nonostante gli altri non capiscano chi siamo e cosa stiamo veramente facendo, nonostante tutto, il lavoro ha senso. Lavorando creo, produco, costruisco il mondo intorno a me, e questo, qui ed ora, dà significato alla mia vita, mi dà piacere al di là della remunerazione.
Frédéric e Deslaurieres ci ricordano che privarci di questo piacere è un'ingiustizia nei confronti di noi stessi.

Introduzione a 'Leggere per lavorare bene', Marsilio, 2007

Mi piace leggere romanzi. Come per molti della mia generazione, leggere romanzi è stata una esperienza infantile –Pinocchio, Gianburrasca, Cuore, Incompreso, Il piccolo lord, Salgari, Verne–, alla quale è succeduta una rottura. Al consueto effetto della scuola, che rende ostili libri che si sarebbero altrimenti avvicinati con diletto, per noi, da giovani adulti, si aggiungeva una peculiare situazione legata al momento storico: era d'obbligo in quegli anni sdegnare la narrativa e dedicarsi a saggi economico-politici. La lettura di romanzi, ricordo, era vissuta come una sottile trasgressione, della quale era meglio tacere. Trasgressione resa meno dura solo se l'opera godeva –almeno indirettamente: è il caso di Cent'anni di solitudine– di una qualche legittimazione ideologica.
Perciò ho letto pochi romanzi negli anni della formazione. E ho colmato il ritardo, per quanto mi è stato possibile, attorno ai trent'anni.
Lavoravo in una grande impresa, mi occupavo di formazione e di organizzazione aziendale. La lettura di romanzi –narrativa, fiction– aveva per me, in quel contesto, il consapevole senso di una autoterapia. Un modo per viaggiare lontano dalle assurdità che avevo sotto gli occhi. E allo stesso tempo un modo per leggere criticamente, in filigrana, attraverso l'occhio libero e creativo del narratore, quell'assurdo quotidiano.
Mi rivedo ora in un angoscioso momento di passaggio della mia incipiente carriera. Seduto ad una scrivania isolata e spoglia, senza nulla da fare, attendevo mi venisse assegnato un nuovo incarico. Sedavo l'ansia leggendo Dostoevskji, Delitto e Castigo. Il Direttore del Personale usciva dal suo ufficio e mi passava davanti. Mi guardava accigliato.
Cominciai a pensare allora al romanziere come a un cantastorie moderno. Un bardo, un rapsodo: 'colui che cuce il canto'. Non dice magari niente di nuovo, ma sa connettere in un tessuto narrativo frasi colte al volo, emozioni, passioni, fatti, cronache, credenze. Il romanziere si prende tutte le libertà che sono negate allo storico, scienziato sociale, e anche allo stesso giornalista: costruisce un sistema verosimile senza essere schiavo della verità. Si permette, con vantaggio per il lettore, di ingigantire una aspetto in apparenza marginale, un dettaglio, illuminando così di una luce nuova un quadro che magari ci appariva già noto.
Per questo solo nei romanzi troviamo rappresentato in modo così efficace lo spirito del tempo – il clima intellettuale, morale e culturale che caratterizza un periodo storico, un modello economico, un sistema produttivo, un mercato. Per questo la lettura di romanzi è non solo piacevole, ma anche utile e istruttiva.
E' così che mi sono ritrovato, all'inizio degli anni novanta, per la precisione nel gennaio del '92, a curare su Sviluppo & Organizzazione, la più autorevole –credo– rivista italiana di management, una rubrica di 'casi aziendali tratti dalla letteratura'. Un romanzo ogni due mesi, ottantasei romanzi letti e commentati, finché giusto un anno fa, nell'aprile del 2006, ho gettato la spugna. Non ho smesso di frequentare il romanzo, questo no. Ma ho sentito il bisogno di cambiare ritmo. L'obbligo, in qualche modo toglieva leggerezza alla lettura.
Ho pubblicato nel 2000 una prima raccolta, Romanzi per i manager. Ed ecco ora questa, Leggere per lavorare bene. La distanza tra i due titoli è per me ricca di significato. Sintetizza le riflessioni di questi anni.
Mi ero avvicinato al management con rispetto, e con tutte le insicurezze del neofita. Ho preso sul serio questo sapere specialistico; ci sono passato in mezzo, ho fatto le mie esperienze come dirigente e come amministratore delegato, come consulente e come formatore. Ma con il passare degli anni il management mi è venuto in uggia. Dei maestri del genere, se si possono chiamare tali, ho apprezzato veramente Peter Drucker, Elliot Jaques, Ikujiro Nonaka, pochi altri. Ho letto troppi libri tanto presuntuosi quanto vuoti. Quasi sempre mortalmente noiosi. E sono arrivato a una conclusione forse ovvia. Il management, la gestione, la direzione, la leadership, non esistono come sapere in sé.
Non a caso il romanziere, nella sua saggezza, colloca il manager al suo posto: ci parla di lui come di ogni altra persona al lavoro. Gestire, dirigere, organizzare: non è che un lavoro, o meglio, uno dei tanti aspetti del lavorare.
Leggere per lavorare bene, dunque. Innanzitutto, in senso stretto: questo libro può essere letto come un manuale. ‘Fare il capo’, muoversi nel contesto di una organizzazione, governare un progetto, scoprire il modo più adatto a noi per ‘fare carriera’, svolgere un compito, cercare un impiego: c’è sempre da imparare certo; ma servono a poco certi libri dove l’autore non racconta niente di sé, non si mette in gioco, e dall’alto di una cattedra che nessuno gli ha dato pretende di insegnarvi cosa è giusto per voi. Lasciate perdere quei libri. Leggete, piuttosto, un romanzo.
Leggere per lavorare bene, ancora, come modo per ‘accumulare ridondanza’. La nostra capacità di affrontare situazioni nuove e difficili non si alimenta con lo studio accanito, né basta il ricorso a esperienze passate. Il presente incerto può essere vissuto efficacemente solo se la nostra mente, lavorando senza costrizioni, sull’onda dell’emozione, porta alla luce qui ed ora le conoscenze che servono adesso. Conoscenze accumulate magari per caso, per piacere o per gioco. Leggere romanzi ci allena proprio a questo: vagare in mondi possibili, sognare, connettere tra di loro pensieri in apparenza lontani. Leggendo romanzi, insomma, immagazziniamo nel nostro baule mentale materiali di varia natura, apparentemente inutili. Ma è tutta roba buona, che ci tornerà utile quando meno ce lo aspettiamo.
Leggere per lavorare bene, infine, come modo per riflettere sulle fonti dello 'stare bene'. E' di moda –ragionando attorno al lavoro– parlare di benessere, ed è chiaro che se ne parla perché il clima di lavoro che alla grande maggioranza di noi è dato di vivere, è lontanissimo dal benessere. Mi chiedono spesso: ma come fai a parlare di lavoro come approssimazione alla felicità, sapendo che la moneta che circola oggi è soprattutto, se non solo, arroganza, disprezzo, offesa, disinteresse. Rispondo che so che le cose stanno così: mi ferisce ancora il ricordo di esperienze vissute; osservo a quale deserto emotivo siano ridotte le aziende che mi capita di visitare; ascolto le sofferte storie vissute da persone cui voglio bene. Eppure credo che, proprio di fronte a questa evidente realtà, ognuno di noi possa e debba cercare risposta nell'amare il proprio lavoro. C'è, in ogni lavoro, uno spazio di autonomia che nessun capo protervo, nessuna organizzazione assurda può violare. Occupando con dignità, con dedizione, con onestà, con decoro – occupando questo spazio, manteniamo viva l'autostima.
Non dobbiamo negarci la speranza che il nostro comportamento, quale che sia il ruolo che occupiamo, inneschi un qualche circolo virtuoso, e apra delle possibilità di cambiamento, favorisca un miglioramento. Talvolta accade.
Ma anche se il contesto resta ingiusto, anche se lo vediamo giorno dopo giorno cambiare in peggio, anche se quel capo, quel padrone, quella azienda non si meritano il nostro lavoro, anche allora vale la pena di lavorare bene. Lavorando bene nonostante tutto, lavoriamo su noi stessi, costruendo il personalissimo percorso che ci porta al benessere.
Freud accomunava l'amore e il lavoro, considerandole le fonti della vita. E' singolare come poi ci sia abituati a considerare lontani i due ambiti. Ed è singolare come ci risulti ovvio pensare che i romanzi parlano di amore, e come ci suoni strano ammettere che i romanzi parlano anche di lavoro. A ben guardare, anzi, i migliori romanzi ci parlano sempre, allo stesso tempo, e in modo intrecciato, di amore e di lavoro. Ci parlano, in fondo di amore per il lavoro.
Non tutti i romanzi, certo. Perciò ho fatto delle scelte. Mi sono preso la libertà di escludere i libri dove il lavoro è fatto oggetto di scherno. I libri di autori che si vantano di essere fuggiti dal mondo del lavoro. E di autori che non essendo ancora riusciti a fuggire, deprecano la vita che stanno conducendo. Insomma, i romanzi di chi si chiama fuori, di chi scrive pretendendo di insegnare al manager cosa deve fare, da fuori, come grillo parlante, senza nulla sapere dei dolori del manager.
Ho raccolto romanzi che mi sono piaciuti. Ventidue opere scelte con un doppio criterio; classici indiscutibili –Goethe, Manzoni, Stendhal, Poe, Pirandello– mischiati con opere poco note o malnote –Felisberto Hernández, Matilde Serao, Gombrowicz, D’Arzo–.
Spero che queste pagine piacciano anche a voi e vi invitino a leggere (o a rileggere) le opere nella loro interezza. Ma spero innanzitutto che prendiate lo spunto dal mio gioco per fare altrettanto, andando oltre: spero che vi concediate la libertà di scegliere e di giudicare, lasciando in secondo piano i consigli di critici e di recensori di professione. Spero che dedichiate sempre più tempo a leggere romanzi. Spero che vi mettiate a scrivere il vostro romanzo. Non sarà tempo perso, sarà al contrario tempo guadagnato.

Introduzione a 'Romanzi per i manager', Marsilio, 2000

Ecco l'Introduzione così come l'avevo scritta, a monte di qualche modifica poi apportata dall’editor della Casa Editrice.


In una sera d’autunno del 1991 passeggiavo per via Porpora, a Milano, insieme a Raoul C.D. Nacamulli. Conoscevo da poco Raoul, professore di Organizzazione Aziendale, direttore di Sviluppo & Organizzazione, probabilmente la più accreditata rivista italiana di studi organizzativi. Avevamo ragionato insieme del caso di una piccola impresa che allora dirigevo, una ‘organizzazione snella’, ma ora parlavo a Raoul di quest’altro mio mondo, i miei interessi critico-letterari (in parte destinati a concretizzarsi nel Viaggio letterario in America Latina, Marsilio, 1998). Gli dicevo di come in fondo i due mondi si tocchino: esistono romanzi che sono vere case histories, perfette rappresentazioni di modelli organizzativi, ed esistono autori, come per esempio Balzac, che meglio di qualsiasi sociologo hanno saputo descrivere non solo un’epoca, ma anche il funzionamento della macchina produttiva.
Per i raffinati Balzac era un pauvre scribouiller, un povero scribacchino megalomane e superficiale, bersaglio ideale di lazzi e di caricature. Ma lui andava dritto per la sua strada. Nel 1825 –a 26 anni– aveva tentato fortuna nell’editoria, cercando di avviare prima una tipografia e poi una fonderia di caratteri. Imprese disastrose, come tutte quelle nelle quali non cesserà di imbarcarsi. In Sardegna tenterà di rimettere in funzione antiche miniere d'argento. Fonderà riviste, ma la Revue parisienne, redatta da lui solo, naufragherà dopo tre numeri in un mare di debiti. Tenterà la sorte anche in politica, cercherà di salvare la testa a condannati a morte.
Ma non si arrende mai. Come i suoi personaggi cade nella polvere, ma risorge sempre dalle sue stesse ceneri. Lo sostiene l'intima convinzione del suo genio.
Ciò che veramente lo entusiasma sono gli inventori e le invenzioni. Le nuove possibilità offerte da scienza e tecnica: “Oh, che vita straordinaria!”. Una intera parte delle Illusioni perdute è dedicata alle “sofferenze di un inventore”, David Séchard che cerca di produrre la carta direttamente a partire da fibre vegetali, anziché con gli stracci: è una rivoluzione necessaria per la diffusione di massa dei prodotti editoriali; Balzac ci crede – ed per questo riesce, in un romanzo, ad anticipare una storica innovazione.
Raccontavo queste cose, divagando e facendomi prendere la mano dal tema che mi stava cuore, quando Raoul mi interrompe e mi dice che sì, questo potrebbe essere il tema di una rubrica, in fondo Sviluppo & Organizzazione si propone anche di aiutare i suoi lettori a cogliere nessi, a guardare aldilà dai confini angusti della disciplina.
Raoul verifica l’idea presso alcuni membri del Comitato Scientifico della rivista, mi aiuta a mettere a punto la rubrica, ad articolarla in sequenze di brevi brani commentati; sceglie anche il titolo: Il Principe di Condé.
La rubrica prende il via con il numero 129. di Sviluppo & Organizzazione, il primo del 1992.
Si apre con una Premessa che ripropongo ora tale e quale.

“Si racconta che il principe di Condé dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi”. Lo aspetta una dura battaglia, ma non fatica a prendere sonno. Non solo perché era molto affaticato. Soprattutto perché “aveva già date tutte le disposizioni necessarie, e stabilito ciò che dovesse fare, la mattina”.
Così inizia il secondo capitolo dei Promessi sposi. Manzoni contrappone il principe di Condé a don Abbondio, che “invece non sapeva altro ancora se non che l’indomani sarebbe giorno di battaglia”. Mentre il principe non tarda a prendere sonno, don Abbondio, incerto ed insicuro sul daffarsi, si appresta a vivere una notte di “consulte angosciose”, di sonno agitato, di sogni terribili.
Il principe ha una chiara idea del quadro competitivo e delle forze in campo, ha fatto le sue scelte. Don Abbondio, all’opposto, incapace di prefigurare il processo, incapace di darsi obiettivi, vive in preda all’ansia. Si vede di fronte un quadro segnato dal continuo emergere di fattori incontrollabili, di fronte ai quali non potrà far altro che approntare interventi correttivi di emergenza e tecniche dilatorie: “quello che, per ogni verso, gli parve il meglio o il men male, fu di guadagnar tempo”.
È evidente che il principe di Condé e don Abbondio rappresentano due diversi, anzi opposti stili manageriali. Potremmo anche chiederci quale è il migliore. Lo stile del Gran Condé ci appare –astrattamente– il più efficace. Qualcuno potrebbe però anche eccepire che la consapevolezza della propria inadeguatezza che segna l’atteggiamento di don Abbondio è una forza più grande della rischiosa sicurezza del principe.
Non ci interessa qui prendere partito per uno o per l’altro dei modelli. Ci interessa notare che sono entrambi, a pieno titolo, esempi di gestione di situazioni complesse, stimoli utili a riflettere sui nostri comportamenti di capi, di dirigenti, di manager, in genere di persone che lavorano.
Da dove di solito prendiamo spunto ed esempio. Quali lezioni seguiamo? Siamo portati a dare importanza a libri di guru del management, di grandi consulenti, docenti universitari americani, giapponesi, più raramente europei o italiani.
Cerchiamo modelli nella fisica, nella teoria generale dei sistemi, nella cibernetica, nella sociologia, nella epistemologia. Ma trascuriamo la letteratura, che è invece così ricca di scenari socioeconomici, di sfondi che sono luoghi di lavoro, di studi di casi aziendali e anche, a voler guardare, di modelli euristici belli e fatti, pronti per l’uso: di ciò il famoso passo manzoniano non è che un piccolo esempio.
Questa rubrica parlerà solo di questo. Autori scelti arbitrariamente, brani selezionati in base a criteri tutti personali, perché non si tratta di proporre schemi, di indicare vie. Si vuole semplicemente, attraverso divagazioni che speriamo anche amene, offrire qualche stimolo, invitare ad allargare lo sguardo.
Ogni lettore, così come qui facciamo, potrà tornare su romanzi e racconti già letti, giocare ad applicarvi i propri strumenti professionali. Potrà abituarsi a cogliere nei propri percorsi letterari spunti in qualche modo utili a leggere le organizzazioni.
Potremo forse fare un passo ulteriore: provare a rapportarci con i sistemi organizzativi intorno ai quali –o dentro i quali– lavoriamo, allo stesso modo di come ci rapportiamo con i mondi possibili della letteratura. Con lo stesso piacere e con la stessa partecipazione con cui leggiamo un romanzo, entrare nel gioco, osservando gli attori sociali come personaggi, l’articolazione dei ruoli come struttura narrativa, l'evoluzione del sistema come sviluppo di una trama."


Non credo che ci siamo molto da aggiungere. Sono passati otto anni. Mentre scrivo queste righe sto lavorando alla cinquantatreesima rubrica (Sviluppo & Organizzazione esce con cadenza bimestrale). Sempre cercando di scegliere in base ad una doppia chiave: romanzi interessanti scritti da autori dei quali sia anche bello raccontare la vita. Grandi autori e grandi romanzi, ma non necessariamente: si può trarre stimolo e insegnamento anche da un libro giallo, dalla narrativa sbrigativamente bollata come ‘di consumo’. Anche nella lettura ognuno può e deve trovare i propri percorsi. E non deve mai vergognarsi dei propri gusti.
Le selezioni sono sempre soggettive, motivate per un verso, criticabili per un altro. Dovendo ora scegliere, per questo libro, ventidue autori e ventidue romanzi, ho scelto questi. Forse voi avreste fatto una scelta diversa. Ma è giusto così. Ognuno di noi sceglie a modo suo quando prende una decisione, o quando va in libreria a comprare un libro. Perché vorrei anche che, individuati i testi che vi piacciono di più, leggeste (o rileggeste) per intero il libro: la mia scelta dei brani è arbitraria; non è la migliore; non mi illudo di avervi presentato l’autore e la sua opera così come avrebbero meritato.
Un’ultima cosa. Per nessun motivo dovete sentirvi obbligati a seguire l’ordine che propongo nel Sommario. Potete lasciarvi guidare dalla curiosità, o dallo stimolo del momento, saltare di qua e di là. Potete cercare nell’Indice degli argomenti uno spunto, una illuminazione rispetto a un problema o a una idea che avete in testa.
I singoli paragrafi sono brevi. Possono essere letti in poco tempo, e possono anche essere presi come cose a sé stanti. (Penso anche che questo modo di leggere ‘disordinato’ sia consono con il poco tempo che di solito abbiamo a disposizione; e sia coerente con abitudini che abbiamo acquisito: la nostra cultura è fatta di frammenti, come i frammenti che mettiamo in fila facendo zapping, navigando tra i programmi televisivi. In fondo anche questo libro è una raccolta di frammenti).
In ogni caso, buona lettura.

Portoferraio, agosto 2000

Premessa alla prima puntata della rubrica

La rubrica prende il via con il numero 129. di Sviluppo & Organizzazione, gennaio-febbraio 1992.
Si apre con questa Premessa.

Si racconta che il principe di Condé dormì profondamente la notte avanti la giornata di Rocroi”. Lo aspetta una dura battaglia, ma non fatica a prendere sonno. Non solo perché era molto affaticato. Soprattutto perché “aveva già date tutte le disposizioni necessarie, e stabilito ciò che dovesse fare, la mattina”.
Così inizia il secondo capitolo dei Promessi sposi. Manzoni contrappone il principe di Condé a don Abbondio, che “invece non sapeva altro ancora se non che l’indomani sarebbe giorno di battaglia”. Mentre il principe non tarda a prendere sonno, don Abbondio, incerto ed insicuro sul daffarsi, si appresta a vivere una notte di “consulte angosciose”, di sonno agitato, di sogni terribili.
Il principe ha una chiara idea del quadro competitivo e delle forze in campo, ha fatto le sue scelte. Don Abbondio, all’opposto, incapace di prefigurare il processo, incapace di darsi obiettivi, vive in preda all’ansia. Si vede di fronte un quadro segnato dal continuo emergere di fattori incontrollabili, di fronte ai quali non potrà far altro che approntare interventi correttivi di emergenza e tecniche dilatorie: “quello che, per ogni verso, gli parve il meglio o il men male, fu di guadagnar tempo”.
È evidente che il principe di Condé e don Abbondio rappresentano due diversi, anzi opposti stili manageriali. Potremmo anche chiederci quale è il migliore. Lo stile del Gran Condé ci appare –astrattamente– il più efficace. Qualcuno potrebbe però anche eccepire che la consapevolezza della propria inadeguatezza che segna l’atteggiamento di don Abbondio è una forza più grande della rischiosa sicurezza del principe.
Non ci interessa qui prendere partito per uno o per l’altro dei modelli. Ci interessa notare che sono entrambi, a pieno titolo, esempi di gestione di situazioni complesse, stimoli utili a riflettere sui nostri comportamenti di capi, di dirigenti, di manager, in genere di persone che lavorano.
Da dove di solito prendiamo spunto ed esempio. Quali lezioni seguiamo? Siamo portati a dare importanza a libri di guru del management, di grandi consulenti, docenti universitari americani, giapponesi, più raramente europei o italiani.
Cerchiamo modelli nella fisica, nella teoria generale dei sistemi, nella cibernetica, nella sociologia, nella epistemologia. Ma trascuriamo la letteratura, che è invece così ricca di scenari socioeconomici, di sfondi che sono luoghi di lavoro, di studi di casi aziendali e anche, a voler guardare, di modelli euristici belli e fatti, pronti per l’uso: di ciò il famoso passo manzoniano non è che un piccolo esempio.
Questa rubrica parlerà solo di questo. Autori scelti arbitrariamente, brani selezionati in base a criteri tutti personali, perché non si tratta di proporre schemi, di indicare vie. Si vuole semplicemente, attraverso divagazioni che speriamo anche amene, offrire qualche stimolo, invitare ad allargare lo sguardo.
Ogni lettore, così come qui facciamo, potrà tornare su romanzi e racconti già letti, giocare ad applicarvi i propri strumenti professionali. Potrà abituarsi a cogliere nei propri percorsi letterari spunti in qualche modo utili a leggere le organizzazioni.
Potremo forse fare un passo ulteriore: provare a rapportarci con i sistemi organizzativi intorno ai quali –o dentro i quali– lavoriamo, allo stesso modo di come ci rapportiamo con i mondi possibili della letteratura. Con lo stesso piacere e con la stessa partecipazione con cui leggiamo un romanzo, entrare nel gioco, osservando gli attori sociali come personaggi, l’articolazione dei ruoli come struttura narrativa, l'evoluzione del sistema come sviluppo di una trama.

'Il Principe di Condé' come rubrica

La rubrica ‘Il principe di Condé è apparsa dal gennaio 1992 all'aprile 2006 sulla rivista bimestrale Sviluppo & Organizzazione.
Ho cominciato con Balzac, e ho terminato col Gattopardo, passando attraverso Svevo e Tolstoj, Busi e Pynchon, Manzoni e Collodi, Gombrowicz e Testori, commentando così 86 romanzi. (L'elenco alfabetico degli autori lo trovate nella colonna sulla destra).
Mi sono esercitato a cercare riflessioni e stimoli utili per chi vuol riflettere sul lavoro e sull'organizzazione in testi diversissimi. Classici dell'Ottocento, romanzi contemporanei, romanzi gialli e di fantascienza. Tutti libri, credo, che vale la pena di leggere. Sempre guidato dall'idea che i romanzieri ci insegnano a leggere le organizzazioni meglio di qualsiasi teorico del management. (Ho scritto: 'ho terminato'. Ma forse ho solo sospeso).
Buona parte dei testi è stata raccolta in Romanzi per i manager, Marsilio, 2000, in Leggere per lavorare bene, Marsilio, 2007, Il Principe di Condé, Este, 2010.
Di seguito trovate l’elenco delle puntate. 
Sono segnati con l'asterisco (*) i capitoli compresi in Romanzi per i manager. Con il doppio asterisco (**) i capitoli compresi in Leggere per lavorare bene. Con triplo asterisco (***) i capitoli compresi in Il Principe di Condé. Con quadruplo asterisco annoto le rubriche riprese nel libro Perché posso dirmi formatore, 2021.


1992
(**) Honoré de Balzac, Nascita di una economia moderna (da Le illusioni perdute)
(*) Aldo Busi, La criptofabbrica (da Vita standard di un venditore provvisorio di collant)
(**) Jorge Luis Borges, Macchine Oziose (da 'Gli Oziosi', racconto, in Cronache di Bustos Domecq, di Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares)
Primo Levi, Fuori dalla fabbrica (da La chiave a stella)
(*) Thomas Mann, La maschera del ruolo (da I Buddenbrook)
(*) Italo Svevo, Senza ruolo e senza maschera (da La coscienza di Zeno)

1993
Robert Musil, Il ruolo smascherato (da L’uomo senza qualità)
(*) Robert Walser, Passeggiando nel mercato del lavoro (da I fratelli Tanner)
(*) Lev Tolstoj, La leadership debole (da Guerra e pace)
(*) Herman Melville, Le relazioni ambigue (da Bartleby, lo scrivano)
(*) Joseph Conrad, Il passaggio della crisi (da Il tifone)
(*) Antoine de Saint Exupéry, La forza del regolamento (da Volo di notte)

1994
Georges Perec, Turismo virtuale (da La vita istruzioni per l'uso)
(**) Felisberto Hernández, Le lacrime come vantaggio competitivo (da 'Coccodrillo', racconto compreso in Nessuno accendeva le lampada)
Thomas Pynchon, Il lavoro come caccia solitaria (da V.)
(*) David H. Lawrence, Le ragioni del cottimo (da Figli e amanti)
(*) Julio Cortázar, I limiti della velocità (da 'Autostrada del sud', racconto compreso in Tutti i fuochi il fuoco)
(*) Jack London, Taylorismo in lavanderia (da Martin Eden)

1995
(*) Georges Simenon, L'organizzazione dei sotterranei, ovvero i sotterranei dell'organizzazione (da Maigret e il sergente maggiore, in originale Les caves du Majestic)
Friedrick Rolfe alias Baron Corvo, Il mestiere, lo sport e Venezia come metafora (da Il desiderio e la ricerca del tutto. Un romanzo di Venezia moderna)
(**) Aleksandr I. Solzenicyn, Il lavoro come Purgatorio (da Una giornata di Ivan Denisovic)
Isaac Bashevis Singer, 'Fare le scarpe, ovvero la qualità del servizio' (da I piccoli calzolai, racconto compreso in A Treasury of Yiddish Stories)
Gabriel García Márquez, Il machete di Occam (da L’amore ai tempi del colera)
(*) Achille Campanile, Il marketing, ovvero l'acqua a valore aggiunto (da Un’impresa colossale, racconto compreso in Gli asparagi e l’immortalità dell’anima)

1996
Eduardo Mendoza, Lo sviluppo speculativo: un modello (da La città dei prodigi)
Philip K. Dick, 'Il Tao del management' (La svastica sul sole, poi: 'L'uomo nell'alto castello')
(*) William Gibson, La Rete, ovvero la nuova minaccia (da 'La notte che bruciammo Chrome', racconto compreso nella raccolta omonima)
Elias Canetti, L'organizzazione come libro e come massa (da Autodafé)
Alexander Kluge, La comunicazione come costruzione della realtà (da L’organizzazione di una disfatta)
(**) Stendhal, Napoleone come desiderio, ovvero l’attimo fuggente (da La Certosa di Parma)

1997
Adalberto Ortiz, Dalla palma ai bottoni (da Juyungo)
(*) Guy de Maupassant, La carriera contro la morte (da Bel Ami)
Cesare Pavese, Il macchinismo nelle campagne (da Paesi tuoi)
(**) Fëdor M. Dostoevskij, Il miracolo dell’autorità e l’autorità del miracolo (da 'La leggenda del Grande Inquisitore', in I fratelli Karamazov)
(*) Shalom Aleichem, Lo stallo competitivo (da 'A Kasrilevke è arrivato il progresso', racconto compreso in Kasrilevke)
(***)Don De Lillo, L'inevitabilità della catastrofe e l'ossessione del controllo (da Rumore bianco)

1998
(*) Blaise Cendrars, Il miraggio dell'oro e i modelli di sviluppo (da L’oro)
(**) Alessandro Manzoni, Gli atteggiamenti difensivi (da I Promessi Sposi)
(**) Benito Pérez Galdós, L’accattonaggio come professione (da Misericordia)
(***) Anna Maria Ortese, Gli occhiali, ovvero strumenti per vedere il mondo (da 'Un paio di occhiali', racconto compreso in Il mare non bagna Napoli)
(*) (****) Robert A. Heinlein, Formazione Estrema (da Fanteria dello spazio)
(**) Elizabeth Gaskell, Le ragioni del buon cuore (da North and South).

1999
(*) P.D. James, Segretarie (da Morte sul fiume)
(*) Milan Kundera, Le capacità come fardello (da L’insostenibile leggerezza dell’essere)
(*) Bohumil Hrabal, Il gran teatro del servizio (da Ho servito il re d’Inghilterra)
(**) Matilde Serao, La febbre telegrafica e l’emancipazione della donna (da 'Telegrafi di Stato, Sezione femminile', racconto compreso in Il romanzio della fanciulla)
(**) Nicolaj Vasilevic Gogol, L’illusorio calore dello status symbol (da Il cappotto)
Mario Vargas Llosa, A mali estremi estremi rimedi. Ricerca intervento nell’Amazzonia peruviana (da Pantaleón e le visitatrici)

2000
(**) Herny Miller, Miseri fattorini, ovvero organizzazione di un Inferno (da Tropico del Capricorno)
(*) Émile Zola, Ascesa e trionfo del Grande Magazzino (da Il Paradiso delle Signore)
(**) Johann Wolfgang Goethe, Il lavoro come diletto, o La ricerca dell’armonia (da Le affinità elettive)
(**) Franz Kafka, Trovare l’America, o il posto di lavoro come sogno (da America)
(***) Chimo, Il lavoro come miraggio (da Lila dit ça)
(***) Viktor Olegovich Pelevin, Pubblicità, o la nuova lotta di classe (da Generation “Π”, in italiano Babylon)

2001
(***) Earl Stanley Gardner, Cercare soluzioni (da Perry Mason e il canarino zoppo)
(***) Jean-Claude Izzo, Borderline (da Il sole dei morenti)
(***) Patricia Highsmith, Opera di persuasione (da Ripley Under Ground, in italiano Il sepolto vivo)
(**) Luigi Pirandello, La professionalità come piacere e come gioco (da 'La giara' racconto compreso in Novelle per un anno)
(***) Theodor Fontane, Sentirsi nel mondo. Ovvero Saggezza e cambiamento (da Il signore di Stechlin)
Howard Fast, U.S.A., 1945 (da Sciopero a Clarkton)

2002
(***) Emilio De Marchi, Sentimenti e risentimenti di un impiegato (da Demetrio Pianelli)
(***) George Saunders, Per chi lavora l’organizzazione (da 'Pastoralia', racconto compreso nella raccolta omonima)
(**) Virgilio Piñera, Il tempo non è denaro (da 'El filántropo', racconto compreso in Cuentos)
(**) Edgar Allan Poe, La sagacia del poeta (da 'La lettera rubata', racconto compreso in Racconti)
(***) Michel Tournier, La professionalità come segreta simpatia e come lettura del mondo (da Il Re degli ontani)
(**) (****) René Daumal, La formazione essenziale e la macchina analogica (da Monte Analogo)

2003
(***) Ursula Le Guin, Etnografia dei sistemi informativi (da Always Coming Home, in italiano Sempre la valle)
(***) Kazuo Ishiguro, Quel che resta del tempo di lavoro (da Quel che resta del giorno)
(***) Gustave Flaubert, Il diritto all’autobiografia (da L’educazione sentimentale)
(***) Goffredo Parise, Verso un’ecologia del potere (da Il padrone)
B. Traven, Il lavoro vi farà liberi (da La nave morta)
Ellery Queen, U.S.A., 1963 (da Il quarto lato del triangolo)

2004
(***) Ennio Flaiano, Il marziano e il controllo dell’incertezza (da 'Un marziano a Roma, racconto compreso in Diario notturno)
(****) David Foster Wallace, Perché rifiutiamo i baci del destino (da Infinite Jest)
Isaac Asimov, Storia futura, o la fine dell’antropocentrismo (dal Ciclo della Fondazione)
(***) Graham Greene, Anatomia del successo (da I naufraghi)
(**) (****) Carlo Collodi, Il lavoro secondo Pinocchio (da Pinocchio)
Jonathan Franzen, La vita in cucina (da Le correzioni)

2005
(***) Norman Spinrad, Il potere dello spettacolo (da Jack Barron Show)
(**) Silvio D’Arzo, L’etica personale e l’etica del ruolo (da Casa d’altri)
(***) Raymond Carver, Gesti minimi, (da Cose piccole ma buone, racconto)
(**) (****) Witold Gombrowicz, Critica della forma (da Ferdydurke)
(***) Kurt Jr. Vonnegut, La rivoluzione dei manager e i paradossi della tecnologia (da Piano Meccanico)
(**) Giovanni Testori, Lo sport come moderna festa crudele (da 'Il dio di Roserio', racconto compreso in Il ponte della Ghisolfa)

2006
(***) John Wyndham, L’orlo del caos (da Il giorno dei trifidi)
(***) Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Gattopardismo (da Il Gattopardo).