domenica 21 febbraio 2010

Una rubrica inedita in libro: U.S.A., 1945, da 'Clarkton' di Howard Fast


Il Principe di Condé


U.S.A., 1945
di Francesco Varanini

Howard Fast
Nasce a New York nel 1914 in una famiglia operaia. Nel solco di una tradizione comune a molti scrittori americani, lascia presto la scuola e viaggia per gli States mantenendosi con i più diversi umili mestieri. Scrive il primo romanzo, Two Valleys, nel 1933. L’ultimo, Greenwich, è stato pubblicato da Harcourt nell’aprile 2000. Nell’arco di sessantasette anni Howard Fast, il cui vero nome è Walter Ericson, pubblica sessantacinque libri, usando anche diversi altri pseudonimi (E.V. Cunningham è il più noto) ed attraversando i più diversi generi: il giallo, il rosa, la fantascienza, l’inchiesta giornalistica, il racconto, la sceneggiatura cinematografica, il teatro, la poesia. Le sue opere più note restano probabilmente i romanzi storici legati alla storia americana (Citizen Tom Paine, 1943, divenuto presto un libro di testo nelle scuole) e Spartacus, 1951 - la rivolta degli schiavi contro Roma, 73-71 avanti Cristo, riletta come metafora dei tempi nostri.
Nel 1943 si iscrive al Partito Comunista Americano. Patisce i rigori del maccartismo (la ‘caccia alle streghe’ lanciata contro i militanti comunisti dal senatore conservatore Joseph R. McCarthy). Nel 1947 è arrestato "per disprezzo del Congresso": non aveva voluto rivelare di fronte alla Commissione d’inchiesta i nomi dei compagni di partito. Nel 1952 il New York Times pubblica i messaggi intimidatori di associazioni anticomuniste: i libri di Fast debbono essere esclusi dalle biblioteche pubbliche e scolastiche. Nel 1956 lascia il partito. Parla dei motivi l’anno dopo in The Naked God: The Writer and the Communist Party (1957), e di nuovo nella sua autobiografia, Being Red, 1990. Nel corso degli anni si avvicina al misticismo Zen, al pacifismo, ma l’atteggiamento di fondo, raro esempio di coerenza, non cambia: "I'm a lefty. I was born one, and I'll die one." Muore nel 2003.

Nel dicembre 1944 i tedeschi scatenarono un inatteso attacco nella foresta delle Ardenne. Si incuneano nel Belgio e nel Lussemburgo e stringono d’assedio Bastogne. Solo il 26 dicembre Bastogne viene liberata, e solo a metà del gennaio 1945 l’esercito alleato riprende le posizioni già conquistate. Il contrattacco sul fronte occidentale rimette in discussione la tabella di marcia del generale Eisenhower, e allo stesso tempo indebolisce le posizioni tedesche sul lato orientale. Ne risulta favorita l’avanzata sovietica. E’ così che quando in febbraio scatta l’offensiva finale angloamericana, anche i sovietici sono sul territorio tedesco. E intanto gli Stati Uniti sono ancora impegnati anche sul fronte del Pacifico.
Mentre si continua a combattere, si guarda al futuro. A Yalta, all’inizio del febbraio 1945 Stalin, Churchill e Roosevelt disegnano i nuovi scenari geopolitica: già si intravede un mondo diviso in blocchi, e quel nuovo quadro strategico che si imparerà poi a chiamare ‘guerra fredda’.
Ma Roosevelt, che è entrato alla casa Bianca nel 1932 e che con le elezioni del 7 novembre 1944 è giunto al quarto mandato presidenziale, non vedrà la fine della guerra. La sua salute è malferma. Nella primavera del 1945 va a Warm Spring, in Georgia, a prendersi un po’ di riposo in vista della conferenza per lo statuto delle Nazioni Unite a San Francisco. Il 12 aprile muore improvvisamente di emorragia cerebrale.
La Germania di Hitler crolla meno di un mese più tardi. Le grandi celebrazioni della vittoria, l’8 maggio 1945, sono ancora segnate dal lutto e dalla preoccupazione: la morte del presidente, la morte di milioni di uomini (saranno calcolate oltre quarantacinquemilioni di vittime, di cui oltre quattrocentomila statunitensi). E la recente scoperta , che è solo dell’aprile di quell’anno, di cosa è realmente accaduto nei campi di sterminio nazisti.
La responsabilità del potere, e la sostanziale guida del ‘nuovo ordine mondiale’, ricadono ora sulle spalle di un illustre sconosciuto, il vicepresidente Harry Truman (“Chi diavolo è Harry Truman?” aveva chiesto nell’estate del ’44 il capo del personale della Casa Bianca a Roosevelt).
Intanto gli avvenimenti si succedono incalzanti. Sul fronte del Pacifico gli Stati Uniti impiegano trecentomila uomini per conquistare, sotto il fuoco degli aerei kamikaze, l’isola di Okinawa, indispensabile piattaforma per l’attacco finale al Giappone.
Il 16 luglio 1945 nel deserto del New Mexico ha luogo la prima esplosione atomica. Il più grande progetto di Ricerca & Sviluppo mai concepito dall’uomo –iniziato quando nel 1936 Albert Einstein avvisa Roosevelt delle ricerche tedesche per un uso militare della fissione nucleare– ha raggiunto il suo risultato. Ma ora si deve affrontare il dilemma: se, e come, usare la nuova arma. Il 25 luglio Truman, che è a Potsdam, in Germania, per un nuovo incontro dei tre grandi, ordina di usare la bomba se i giapponesi non si arrenderanno entro il 3 agosto. Alle nove di mattina del 6 agosto il B-29 Enola Gay lancia su Hiroshima la prima bomba atomica. Il 9 agosto, seconda bomba su Nagasaki. Il 14 agosto l’imperatore parlando alla radio annuncia la resa. Il 2 settembre il generale MacArthur, sulla nave Missouri, con i rappresentanti degli alleati, accetta formalmente la resa.
Ma – possiamo chiederci – cosa accade intanto negli States. Tra il 1940 e il 1945 sotto la pressione delle esigenze militari, e in virtù dei finanziamenti governativi, il prodotto nazionale loro raddoppia. La disoccupazione seguita alla crisi del 1929 è definitivamente superata. ‘Economia di guerra’: mercato regolato da commesse statali, razionamento alimentare, prezzi,
stipendi e salari congelati, attento uso e riuso delle risorse. Ma anche significativo innalzamento del tenore di vita. Ora il sistema ha difficoltà a trovare mano d’opera per i cantieri, le fabbriche di aerei e di esplosivi, di cibo conservato. Entrano nel mercato del lavoro due milioni di negri (con conseguenti ondate migratorie dal Sud verso il Nord e il Far West) e sei milioni di donne (e si tratta non solo di ragazze, ma anche di donne mature e sposate). I sindacati vedono crescere il loro peso politico e sociale: gli iscritti passano da undici a quindici milioni.
L’impatto economico e sociale della fine della guerra preoccupa (Truman nelle sue memorie parlerà della “più grande smobilitazione della storia, o, se preferite, ‘disintegrazione’”). Di fatto, gli effettivi delle forze armate, quasi dodici milioni al culmine dello sforzo bellico, scenderanno a tre milioni nel 1947, e a seicentomila alla fine del 1949. Sono anche stati predisposti
ammortizzatori. Nel 1944 è stato promulgato il Servicemen’s Readjustement Act, meglio conosciuto come GI Bill of Rights (GI: Government Issue, il soldato semplice): ingenti stanziamenti a favore dei reduci: cure mediche, sussidi di disoccupazione, programmi educativi e di addestramento professionale, prestiti per l’edilizia privata e per l’avvio di attività imprenditoriali.
Siamo pronti ora per entrare nel romanzo, tutto concentrato in quattro giornate, da giovedì 6 a domenica 9 dicembre 1945 – giusto quattro anni dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour.

Consulenza strategica: stile
Leopold e James erano consulenti industriali, con uffici al trentaduesimo piano dell’Empire State. Quando Lowell, alle tre meno un quarto (…), era entrato nella loro sala d’aspetto, si sentiva piuttosto depresso, e a tale stato d’animo non giovava certo il fatto che quegli uffici erano decorati in uno stile ch’egli aborriva: una specie di modernismo da era delle macchine, fatto di lastre di vetro, di metallo cromato logoro dall’uso, di bassorilievi d’ottone di cattivo gusto e seggiole laminate. Il tappeto azzurro pallido sul pavimento era spesso almeno un pollice e su di un enorme tavolo di vetro erano sparpagliate delle copie di “Fortune”, dell’”United States News” e del “Wall Street Journal”(…)
Accese una sigaretta e quando ne ebbe fumata la metà una rigida donna di mezza età con scarpe col tacco basso lo introdusse nell’ufficio di James. Lì dentro l’azzurro pallido costituiva la nota dominante: azzurri i tendaggi, azzurra la carta da parati raffigurante un panorama fotografico del Parco di Yellowstone o di qualche altro paesaggio delle Montagne Rocciose con le sue bianche vette, le pinete, e i laghi scintillanti. James era seduto a una scrivania grigia di fronte a un’enorme finestra, e la luce del sole invernale lo inquadrava in un paesaggio infinitamente e meravigliosamente distante, tutto cielo e nubi. Era piccolissimo e tarchiato, con movenze da uccello. Fece il giro della scrivania saltellando, strinse la mano a Lowell, lo ficcò in una sedia e poi, in totale contrasto con la prima impressione suscitata nel suo visitatore, abbordò senz’altro, quasi con asprezza, l’affare che li aveva riuniti lì. Mentre parlava rivelava un vago accento straniero, quasi impercettibile, che a Lowell riusciva difficile individuare in rapporto a un paese o a una regione determinata. (p. 13-14)

Imprenditore controvoglia, ovvero Passaggio generazionale
“Dunque lei ha lo stabilimento da cinque anni?” (chiede James a Lowell, ndr)
“All’incirca” rispose Lowell. “Mio padre è morto nel 1940. Era un uomo all’antica; gli piaceva fare da sé. Non era facile per me capirlo, ma non credo che avrebbe chiesto i suoi servigi.”
“Non andavate d’accordo?”
“Andavamo d’accordo” rispose Lowell in tono secco. “Soltanto che non mi piacevano gli affari, e non mi piacciono neanche tanto adesso. Non era necessari oche mi piacessero. Avevo una discreta situazione finanziaria ed ero indipendente, come pure mia moglie.”
“Ma ora si sente obbligato, sinceramente obbligato, alla memoria di suo padre, non è così?” (p. 15)
George Clark Lowell è un imprenditore della seconda generazione. Non avrebbe voluto ereditare l’impresa paterna. Ma un misto di pigro fatalismo e di orgoglio l’hanno spinto a farsene carico. E pensare che fino a poco tempo prima per lui “la parola operaio” aveva per lui “un senso puramente astratto”. “Come la maggior parte delle persone della sua classe, i suoi rapporti con la gente del popolo si erano limitati ai contatti con vetturini, barbieri, impiegati d’albergo, personale di servizio sui transatlantici, e a relazioni intermittenti con tutte quelle persone il cui compito nella vita consisteva nel soddisfare questa o quella particolare esigenza delle classi superiori”.
Ma oramai è impossibile sfuggire alla responsabilità: a Clarkton, il piccolo centro del Berkshires (New England, Massachusetts) la cui economia dipende totalmente dallo stabilimento Lowell, lo sciopero è in corso. Per affrontarlo è necessario il contributo di consulenti.

Dirigenti per professione
Aveva preso posto al suo scrittoio da pochi minuti, fissando pigramente e senza molto interesse il mucchio della corrispondenza, quando entrò Wilson, offrendo la sua mano tesa e stringendo con vigore quella del principale con un largo sorriso stereotipato che gli tagliava la faccia in due. “Mi fa piacere vederla tornare in prima linea, George.” Wilson era l’uomo delle frasi fatte. Quando Lowell l’aveva visto per la prima volta, cinque anni addietro, il saluto era stato: “Benvenuti in prima linea, George”, e da allora era sempre lo stesso ritornello, salvo leggere varianti. A ogni modo, Wilson se la cavava bene. Era un omone, non troppo alto ma grosso e carnoso, di spalle larghe; era più vicino ai cinquanta che ai quaranta e aveva una discreta pancia. Il collo adiposo formava tre menti sopra il colletto; aveva la voce tonante e un po’ roca e un forte attaccamento alla compagnia Lowell. La sicurezza che aveva di sé, del suo modo di vivere, della sua posizione nella vita, era tale che Lowell lo disprezzava e lo invidiava nello stesso tempo. Lowell non aveva per lui alcuna simpatia; Wilson lo sapeva e considerava quel fatto come una sfida. Rispettava quell’antipatia in quanto veniva da un uomo come Lowell, un tipo ch’egli ammirava moltissimo, al punto d’essere quasi fiero di quell’avversione e fermamente deciso ad eliminarla. (pp. 63-64)
Il potere non è nelle mani di Lowell, il ‘capitalista’, è di fatto nelle mani del suo manager. Pochi anni prima l’ex trotzkista James Burnham –in un libro presto famoso, The Managerial Revolution, 1941– rilevava pienamente questo cambiamento: è in atto uno “spostamento del centro della sovranità”: il governo di organizzazioni sempre più complesse impone l’avvento di specialisti, di tecnici della gestione.
Il libro è tempestivamente tradotto in italiano, nel 1946. Ma il titolo è fuorviante: La rivoluzione dei tecnici. Il management non e ancora entrato a far parte del nostro linguaggio e della nostra cultura. Il traduttore si giustifica, arrampicandosi un po’ sui vetri. “La parola ‘managers’ ha un significato più vasto di ‘dirigente’, che può essere interpretato, più che tradotto, in tecnico-dirigente.”

Pianificazione
Dopo una sola pausa impiegata a spuntare coi denti un sigaro e ad accenderlo, (Wilson, ndr) continuò, mettendo quei fatti in relazione con la situazione generale della nazione, con la grande ondata di scioperi, le possibilità di una guerra con la Russia e con l’eccessiva imposta sui profitti, in virtù del cui dispositivo, se i profitti della società fossero scesi sotto il livello del 1939, la differenza sarebbe stata coperta dal governo.
“Il che ci mette in una posizione solida dal punto di vista economico” disse Wilson. “Se facciamo un conto spicciolo di dollari e centesimo, ci converrebbe quasi tener chiusa la fabbrica. Ma ciò equivarrebbe a non vedere più lontano del proprio naso. A me non piace né la mancanza di previdenza né la pianificazione. Che gliene pare?”
“Sono d’accordo con lei” disse Lowell. “Non ho intenzione di chiudere la fabbrica.” Era arrivato lì per lì alla decisione che, una volta riaperte le officine, una volta cessato lo sciopero, , avrebbe messo tutto quanto in mano a Wilson… e se ne sarebbe andato per tutta la durata dell’inverno e forse anche per un periodo più lungo. (p. 64)
Così come ‘management’, ‘pianificazione’è in quegli anni è un concetto ancora difficile da maneggiare. Il significato sociologico ed economico risale agli anni venti. In Unione Sovietica nel 1921 viene istituita la Gosplan, Gosududarstvennaja Planovaja Komissija (Commissione Statale per la Pianificazione), e nel 1929 viene varato il primo Piano Quinquennale. Sono gli anni della Grande Crisi anche in Occidente, gli anni in cui negli Stati Uniti Roosevelt cerca via d’uscita in un New Deal, ‘nuovo accordo’ tra le ‘parti sociali’: accordo che –anche qui– dovrà tradursi in un piano fondato sulla convinzione (o speranza) di poter indirizzare l’economia tramite interventi del governo. L’Economist, il 30 marzo 1935, scrive infatti: se l’impresa privata ha manifestamente fallito nel prendere le giuste misure, ‘planning’ must be tried, deve essere tentata la ‘pianificazione’: espressione nuova, non a caso posta dal giornalista tra virgolette.

Relazioni Industriali
(Wilson parla a Lowell, ndr) “Suo padre non ebbe alcun fastidio con questa gente fino al 1932. Bisogna anche dire che aveva saputo dar loro l’impressione di essere un’unica grande famiglia, e questo senza bisogno di mostrarsi debole, lei mi capisce; aveva un pugno di ferro sotto un guanto di velluto. Li ammise alla partecipazione degli utili e altre cose del genere, e non ci fu mai niente da ridire. Ebbene, le noie cominciarono nel 1930, quando entrarono in scena i sindacati, e le cose no rientrarono nella normalità se non dopo lo scoppio della guerra. Gli operai che abbiamo qui sono ben pagati e conoscono il loro mestiere, e a me piace dirigere una fabbrica senza seccature. Ma se questo sciopero si prolunga troppo, questa gente diverrà cattiva. Lei sarebbe sorpreso di constatare come anche le migliori persone possono diventar cattive, George. Ma questo non è tutto; bisogna considerare il mercato. Io voglio sistemare questa faccenda per potermi occupare del mercato.” (p. 65)
L’atteggiamento ‘fordista’, il pugno di ferro in un guanto di velluto, la relazione personale, non mediata, con ogni singolo lavoratore, è possibile solo per l’imprenditore di prima generazione, paternalista, carismatico. Quindici anni dopo, in un sociale e politico oltretutto molto diverso, né Lowell né Wilson dispongono delle competenze necessarie. Di qui il ricorso alla consulenza – che però, vedremo, non offre alcuno sbocco strategico. E anzi offre solo soluzioni tattiche, poco efficaci e gravide di conseguenze. Le politiche ‘union’ –Relazioni Industriali gestite in accordo con il sindacato– sono ancora di là da venire.

Strike-breaker
Mentre entravano nel piccolo ascensore, Gelb disse al suo aiutante: “Ricorda una cosa, Frank. Andar giù ad arrestare i due rossi non significherebbe proprio niente. Faremmo il loro giuoco e non caveremmo un ragno dal buco. E sarebbe peggio ancora se dovessimo far uso dei nostri uomini per sfondare la linea di picchetto. La cosa non è ancora matura psicologicamente per gli arresti in massa”.
Norman scosse il capo: “Credevo che i mandati di cattura servissero a questo…” L’ascensore si fermò ed essi uscirono.
“Sì e no. (…) L’importante è rompere la linea di fronte all’ingresso. Non con la forza, il che sarebbe abbastanza facile, ma mettendoli in una situazione nella quale la continuazione stessa del picchetto li metterebbe in condizioni di illegalità. Una intimazione sarebbe uno dei modi per raggiungere lo scopo, ma né qui, né in qualunque altro posto degli Stati Uniti la situazione è favorevole ad azioni di questo genere. Ricorda Frank: la cosa più difficile del mondo per un essere umano è prendere una decisione… specialmente se si tratta di decisioni che non si prendono da molto tempo. (…) Mettili nella necessità di dover prendere una decisione. E’ nella natura umana essere esitanti. Ti sorprenderebbe se tu non potessi soltanto immaginare quanta parte della nostra società è fondata sul fatto che la media degli uomini è incapace di qualunque genere di decisioni.” (p. 132)
Chi è Ham Gelb? Inviato dalla società di consulenza Leopold & James, è portatore di una specifica competenza, che è un sostituto delle mancanti Relazioni Industriali. Spezzare lo sciopero, farlo fallire.

Lotta di classe come festa
La cucina era stipata al massimo delle sue capacità. Quelli che avevano già consumato lasciavano il posto agli altri. A un certo momento mancò il pane che fu sostituito da fette di torta con le nocciole; poi anche queste si esaurirono e si dovette dar fondo ad una cassa di pan biscotto ch’era stata regalata da un droghiere di Taunton. (…) “E’ il nervosismo che gli mette appetito” disse Joe. “Dovevi aspettartelo.”
“Dovevo aspettarmi che sbafassero le razioni di tutta una settimana unicamente per via del picchetto di massa?” (p. 206)
Non si vedeva in giro un solo poliziotto, ma soltanto un’automobile con la radio che Jack Curzon aveva mandato a pattugliare le vie. Centinaia di bambini erano accorsi a godersi lo spettacolo e sembrava che per loro fosse una gran festa. Un folto gruppo di giovani operai reduci di guerra era uscito in uniforme con la propria bandiera e uno striscione sul quale si leggeva: “Okay… anche se ci costerà più di Anzio, di Tarawa e della Normandia!”.
Alle nove meno un quarto Danny Ryan, al volante della Ford 1931 di Renoir, si fermò davanti alla cucina di Saropoles, si fece strada nella calca e disse al greco: “Tutto è pronto per cominciare la marcia. Abbiamo più di mille uomini all’angolo della Quarta strada con via delle Querce. Perché non mandi lì anche la tua banda? Possiamo partire tutti da quel punto, e a Curzon sarà meno facile sfondare la formazione”. (p. 207)

Lotta di classe come dramma
(Mike Sawyer, ndr) era venuto a Clarkton per starci poche ore. Era un organizzatore novizio del partito comunista degli Stati Uniti assegnato a quel distretto. Si sentiva incerto delle sue capacità e anche un po’ intontito dalla funzione. Aveva finito per restare lì tre giorni lasciando che in altre località del distretto si accumulasse più lavoro di quanto egli fosse in grado di sbrigare: quattro scioperi, riunioni, situazioni di ogni genere, rifornimenti di viveri con dei fondi esausti, questa o quella crisi che esigevano la sua opera di orientamento… insomma, un programma combinato in fretta e furia e senza ordine che si pretendeva che egli dipanasse, che sistemasse ragionevolmente vivendo con trentacinque dollari la settimana più cinque dollari per le spese. Ci si aspettava da lui tutto questo, e nello stesso tempo che fosse quello che la stampa nazionale descriveva così meticolosamente e con tanta sicurezza come la mente direttiva di un’organizzazione compatta e tremendamente disciplinata, strumento di Mosca, creato per sovvertire le istituzione nelle quali credono gli uomini liberi. (…)
Lui, un individuo, doveva personificare quell’organizzazione, conoscere i suoi problemi e anche i problemi del mondo, e risolverli. Ma non ave risolto nulla, e ora lo criticavano. (…)
Si pretendeva che lui si fosse dimostrato un capo; ma egli non aveva mai fatto il capo; non aveva mia preso decisioni di una certa importanza. Da poche settimane era stato congedato dall’esercito, dove tutti prendevano delle decisioni, meno lui, e adesso si trovava sul collo uno sciopero di cinquemila operai, la morte di due persone, un massacro come non ce n’erano più stati dal 1930, e la prospettiva molto probabile di uno sciopero lungo, penoso, estenuante, uno sciopero nato dalla violenza e che sarebbe continuato nella violenza. (pp. 228-229)
Nonostante il vasto successo di pubblico è considerato uno scrittore di serie B, e Clarkton non è annoverata tra le sue opere più riuscite. Ma Fast ha molto da insegnare: pochi sanno come lui descrivere i conflitti sociali in termini semplici, attraverso l’opposizione tra caratteri e ruoli, attraverso il piano racconto di storie di vita.
Mentre Mike Sawyer, rappresentante di una nuova possibile classe dirigente, si confronta con i suoi limiti soggettivi, e con l’oggettiva la difficoltà di organizzare il cambiamento, George Lowell si guarda intorno spaurito, cercando di cogliere intorno a sé segni di continuità. Cerca di convincersi che nulla è cambiato. La morte del figlio sul fronte europeo, i campi di sterminio nazisti, la bomba atomica, la guerra fredda e l’inatteso sciopero – tutto è cambiato, ma forse davvero niente cambia per chi non vuole vedere il mutamento, perché non sa accettarlo.
Lowell, in treno, va nella vettura-salone, trova una sedia libera e ordina un whisky con soda, e si compiace dicendosi che almeno quelle vetture ed i viaggiatori che le frequentano continuano ad essere uguali a se stesso.
Tutto, in apparenza, è come prima. “Si vedevano sempre le stesse facce. Si sforzò di confermare il suo giudizio osservando i volti vacui di quei viaggiatori di mezza età, piccoli funzionari, avvocati e rappresentanti di commercio, vestiti più o meno alla stessa maniera, donne mal dipinte o non dipinte. Si sentì confortato da quell’esame e quando gli fu servito il whisky riuscì persino ad aprire una copia di “Life”, a guardarne le fotografie e a centellinare la sua bevanda, esattamente come avrebbe potuto fare qualunque altro dei suoi compagni di viaggio”.

Riferimenti bibliografici
Clarkton, 1947, è uscito in Italia da Mondadori nel 1967, con il titolo Sciopero a Clarkton. Ma i diritti erano stati acquistati nel 1950 dall’Einaudi. La traduzione, di allora, è di Franco Ferrarotti. La Mondadori pubblica su licenza.

1 commento:

  1. Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.

    RispondiElimina